"Reportage di Viaggio" è la raccolta dei viaggi organizzati da Socchi Adriano, titolare dell'agenzia CULTURE LONTANE


Gli Himba e gli Herero di Opuwo

18.02.2002 18:01

Impieghiamo un’intera giornata, da Halali, nel bel mezzo del Parco di Etosha, per arrivare ad Opuwo, la capitale del Kaokoveld, la zona nordoccidentale della Namibia, definita "l’ultima grande regione selvaggia dell’Africa". 


Percorriamo, dapprima, 70 km di sterrato lungo le belle piste del parco, quindi imbocchiamo la strada asfaltata per Ruacana, a pochi chilometri dal confine con l’Angola. Attraverso questi ultimi 360 km prendiamo coscienza di essere penetrati in una realtà diversa, nel cuore di una regione che incarna per molti versi gli aspetti meramente africani del paese. Il contrasto con la capitale e con le altre città visitate nel corso del nostro viaggio, come Walvis Bay e Swakopmund, è tangibile. La popolazione, esclusivamente di colore, è più povera. La vita scorre più lenta. Durante il tragitto entriamo in uno dei tanti bar, dai nomi assai pittoreschi, che costeggiano la strada. Siamo gli unici bianchi. Sembrerebbe di aver superato un’ipotetica frontiera: a sud i bianchi, a nord i neri.
Una quindicina di chilometri prima di Ruacana, prendiamo l’ennesima strada sterrata, che ci condurrà dopo 90 km ad Opuwo. La velocità si riduce a 50, anche 40 km l’ora, secondo le condizioni, più o meno accidentate, del percorso. Sono le 16.00 del pomeriggio e davanti a noi si distende una piana rovente e riarsa dal sole, di terra arida e polverosa. E’ una vista per niente affascinante, fatta apposta per mettere alla prova i propri nervi, dopo l’incantevole deserto del Namib o di quello ammaliante della costa. … Nemmeno il tempo di pensarlo che giunge inopportuna la solita domanda di Mavi: che cosa ci siamo venuti a fare fin qui?
S’accende una discussione che ci accompagnerà per circa un’ora, fino a quando in questa landa desolata e dimenticata da Dio, senza dubbio la zona visitata meno invitante di tutta la Namibia, incontriamo il motivo per cui siamo giunti fin quaggiù: gli Himba

Il primo incontro è con un’adolescente sola, in groppa ad un asino. La superiamo, ma soltanto per non aggredirla o spaventarla. Un chilometro dopo, infatti, ci fermiamo. In realtà siamo ansiosi di incontrarla, ma vogliamo che ciò avvenga come se si trattasse di qualcosa di casuale. Poco dopo la giovane ci raggiunge e si ferma ad una certa distanza da noi. La scorgiamo indecisa, ma alla fine, vinte le sue insicurezze, s’avvicina. E’ il primo incontro con un Himba. L’emozione in tutti noi è palpabile, anche perché questo rimarrà, forse, il più autentico. Comunichiamo con la giovane a gesti, dieci minuti d’insignificanti e indecifrabili movimenti di mani, finchè lei, forse stufa, non si arrende, monta sul suo asino e scompare nella macchia ai bordi della strada. La scena è bucolica.
Risaliti sull’auto avvertiamo la sensazione di trovarci in luogo della terra, sì dimenticato, arido e desolante, ma ora siamo sicuri che non ci deluderà. La discussione torna ad essere animata, ma, questa volta, positivamente, ognuno di noi intravede grandi sorprese. Gli himba ci sono, ma non solo. Sono tali e quali a quelli visti nei documentari in televisione. 

E’, ormai, l’imbrunire quando arriviamo ad Opuwo. Questo paese, sperduto in un angolino dell’Africa, sarà destinato a rimanere indelebilmente dipinto nei nostri occhi e di chi, come noi, avrà la fortuna di visitarlo. La strada è di nuovo asfaltata, giusto appunto per i 2, 3 km lungo cui si sviluppa il paese, ma la nostra attenzione è immediatamente calamitata dagli abitanti! Anche se siamo stanchi per le ore di viaggio accumulate, lo stupore è tanto che anziché andare a cercarci una sistemazione per la notte percorriamo avanti e indietro la strada principale. Opuwo è un cocktail umano. Quello che s’incontra qui è una ricchezza impareggiabile: differenti culture e gruppi etnici convivono secondo ritmi e tradizioni diverse. 

Per strada persone vestite all’occidentale si confondono con donne himba, seminude, e con donne herero, riconoscibili per le lunghe gonne e il caratteristico copricapo a forma di corno. Giovani ragazze himba passeggiano, tenendosi per mano, insieme a coetanee herero. In un negozio d’alimentari, in cui entriamo, per prendere da bere, ci ritroviamo a far la fila con un himba, vestito semplicemente di un minuscolo gonnellino. Dal rifornitore di carburante l’addetto alla pompa è una donna herero. La realtà supera di molto le aspettative che ognuno di noi riservava a questo posto.
Soggiorniamo in una guest house, gestita da un’anziana e severa donna tedesca, proprio nel centro del paese. A quanto pare siamo i suoi unici ospiti. Al momento di uscire per cena, la signora ci confida che lei non esce mai dopo il calar del sole e c’invita a rientrare per le undici perché Opuwo, di notte, è pericolosa. Ceniamo nell’unico ristorante aperto, anche qui siamo i soli turisti. Il proprietario, francese, è desideroso di parlare un po’ la propria lingua madre. Grazie a lui, e ad Ilaria, la nostra traduttrice ufficiale, apprendiamo molte informazioni sugli Himba.

L’etnia degli Himba deriva da un ramo della popolazione bantù (la stessa degli herero). Vivono in povertà, rifuggendo dal mondo moderno, di spontanea volontà, ma sempre meno sono quelli che rimangono legati alle proprie tradizioni di cacciatori e raccoglitori. Secondo un censimento di qualche anno fa’, pare, non più di 3.000.

Il giorno seguente, in compagnia di Elisabeth, una giovane guida herero, reclutata per strada la sera prima, partiamo alla volta di uno dei villaggi Himba, siti nei dintorni di Opuwo. E’ domenica, giorno di mercato, quindi decidiamo anzitutto per un breve giro tra le poche e sgualcite bancarelle disordinatamente disposte sulla piazza, in terra battuta, che si trova di fianco alla chiesa. I prodotti venduti sono esclusivamente generi alimentari, soprattutto carne, ma il banco più frequentato, indistintamente da uomini e donne, è quello della birra, una sorta di bar all’aperto attorno a cui sembra svolgersi la vita sociale dei giovani. Il mahango, la birra di miglio, scende che è un piacere e un bel bicchiere, da un litro, lo ingurgita anche Elisabeth.

Lasciamo il miserevole mercato di Opuwo, per andare ad acquistare, al supermercato, un sufficiente quantitativo di farina, zucchero, tabacco e frutta secca che offriremo al capo del villaggio, per ottenere il permesso di aggirarci tra le capanne della sua tribù. Dopo circa venticinque minuti di pista accidentata su per ricettacoli di montagne deserte, più adatta ad un fuoristrada che non alla nostra macchina, arriviamo in prossimità di un isolato e solitario villaggio himba. L’accampamento è costituito da una decina di pontoks, capanne di forma circolare costruite con rami di alberi ricoperti di argilla, erba e sterco di animale.

Elisabeth, da sola, si dirige verso la capanna del capo villaggio ad annunciare la nostra visita e dopo cinque minuti ritorna dicendoci che l’anziano capo è felice di ospitarci nel suo villaggio. Lo troviamo ad attenderci davanti alla sua capanna, in piedi, appoggiato ad una canna. Ha l’aspetto di un uomo vecchio e stanco, ma dai suoi lucidi occhi traspare tuttavia una gioiosa luce. Veste, come le donne, dei gonnellini ripiegati, di pelle di capra. Ci ringrazia per la mercanzia portata e ci invita ad entrare nella sua capanna.
Qui, attraverso la traduzione di Elisabeth, diventiamo, involontari testimoni di un grido di speranza e disperazione, al tempo stesso, esternato dal saggio capo. 
Sempre più giovani lasciano i villaggi sostenendo la tesi che se l’himba vuole sopravvivere deve cessare di essere himba, deve diventare un uomo moderno. Questa è l’inevitabile conseguenza del contatto con il progresso.
Provato il mondo fuori, alcuni, ritornano a vivere secondo le proprie tradizioni. 
La loro vita si svolge in condizioni tragiche, ai limiti della sussistenza, ma ciò nonostante loro ritengono che, dopo averla sperimentata, la vita al di fuori di quella della loro terra abbia creato una società priva di valori spirituali e morali. Criticano il mondo moderno perché basato sulla competizione tra gli individui e non sulla collaborazione, ne criticano gli uomini perché danno più importanza al successo economico che non alla felicità familiare e personale. Per noi, himba, il mondo fuori è strano e pericoloso. 
Oggi i giovani che si allontanano iniziano a ritornare, sempre più; gli himba stanno riprendendo coscienza dei propri valori e delle proprie tradizioni. Ditelo quando ritornate nella vostra terra.
All’interno del villaggio vediamo solo donne e bambini. Questi ultimi formano costantemente una piccola processione alle nostre spalle. Le donne sembrano impegnate in un’unica occupazione, ossia quella di ungersi il corpo di grasso "ocra", una mistura di argilla ferrosa e burro di capra, di color rosso, che serve per proteggere la pelle dal sole cocente, dalle punture di insetti e, non ultimo, per compiacere ed essere desiderate dagli uomini. Costoro sono fuori a caccia, i più giovani al pascolo. In particolare siamo colpiti dalle capigliature delle donne. Tutte, indistintamente, hanno i capelli intrecciati ricoperti di questa mistura che usano sulla pelle. Quelle che portano l’erembe, il ciuffo arricciato sopra la fronte, sono sposate. Hanno i seni nudi che valorizzano con collane e con una grossa conchiglia bianca, segno di fertilità. Infine salta agli occhi la serie di pesanti cerchi che portano alle caviglie, come gambali. 

Sulla strada del ritorno a Opuwo, proprio in periferia ci fermiamo in un villaggio di etnia herero. L’incontro con questa popolazione sarebbe dovuto già avvenire nel corso del nostro viaggio. Approfittiamo, allora, dell’occasione. L’aspetto del villaggio è molto simile a quello himba, appena visitato, ma a dispetto di quest’ultimi gli abitanti non sono mezzi nudi. Anche qui troviamo esclusivamente donne, vestite con il caratteristico abito costituito da una grossa crinolina indossata sopra una serie di sottogonne, retaggio dei missionari tedeschi, dell’epoca vittoriana. Costoro, infatti, non gradivano per nulla quella che essi consideravano una mancanza di pudore da parte delle donne locali abituate a tenere il petto scoperto. In testa portano il tipico cappello, a forma di corno, che le rende inconfondibili.

Trascorsa l’intera giornata ad osservare lo svolgersi della vita quotidiana di due etnie indigene, ancora orgogliosamente legate alle proprie tradizioni ed ai propri costumi, ci chiediamo, però, fino a quando riusciranno a restare indifferenti al progresso e con questa domanda lasciamo, sotto un solleone africano, Opuwo, diretti all’aeroporto di Windhoek. Il nostro viaggio volge al termine. Ci spetta ancora tanta strada, di cui molta sterrata. Come sempre la via del ritorno è melanconica, ma nel mesto silenzio dell’abitacolo dell’auto ci accompagna una strana sensazione: quella di aver avuto la fortuna, visitando questo luogo, una delle "ultime grandi regioni selvagge dell’Africa", di essere forse tra gli ultimi testimoni di un tempo che fu…

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