"Reportage di Viaggio" è la raccolta dei viaggi organizzati da Socchi Adriano, titolare dell'agenzia CULTURE LONTANE


L'Artico d'inverno. Ilulissat 69°23'40"

11.03.2007 19:32

La Groenlandia rappresenta ancora una meta lontana, da intendersi non come distanza, ma in senso di diversa e strana… lontana dalla nostra società e dai paesaggi a noi consueti. Il grande nord inizia a 66°33’ di latitudine (Circolo Polare) e finisce a 90° del Polo Nord; così almeno è segnato sulle carte geografiche, ma in realtà è un luogo senza confini che richiama la sfera dell’immaginazione a mitiche spedizioni e che oggi offre al viaggiatore avventure entusiasmanti, in aree poche frequentate dal turismo.


Groenlandia. Ilulissat. Inverno. Primi di marzo. Quattro giorni da trascorrere a 69°23’40’’ di latitudine nord, ben 280 chilometri oltre il “circolo polare artico”, in un luogo sperduto del pianeta. 
A bordo di un Dash-7, l’aero a doppia elica che collega Kangerlussuaq a Ilulissat, con lo sguardo incollato ai finestrini per tutti i 45 minuti di volo, indifferenti dell’assordante rumore del bimotore, la Groenlandia appare per quel che è: “un mondo ghiacciato”. Sulla destra, del senso di marcia, la calotta glaciale, immensa distesa bianca che si perde in lontananza; proprio sotto la banchisa di ghiaccio, che ancora ricopre la parte di mare più prossima alla riva, spezzata qua e là, segni dell’arrivo della bella stagione; a sinistra il mare aperto, libero dal pack, dove galleggiano enormi isole di ghiaccio, gli iceberg. Il fascino che la Groenlandia esercita è qui rinchiuso: i ghiacci, i paesaggi e l’estreme condizioni atmosferiche. 
In questo brandello urbano ai confini dell’universo, d’inverno, s’arriva solo con l’aereo, …e non sempre. Ilulissat prima ancora di essere un ben determinato luogo fisico (69° di latitudine e 51° di longitudine) è un luogo, secondo i punti di vista, sublime e spietato, smodato e limitato, fausto e apocalittico. Un piccolo paese sperduto tra i ghiacci Groenlandesi, dove la gente vive la propria scialba vita con dignità e spiccato senso comunitario. L’inverno buio, gelido e tetro miete annualmente le sue vittime. La piaga dell’alcolismo in primis e, poi, i suicidi, che si diffondono sempre più fino a diventare la prima causa di morte tra i giovani, colpiti da forme depressive per la mancanza di luce e svaghi, oppressi dagli angusti confini entro cui si svolge la loro esistenza, frustrati dall’impossibile realtà ambientale. Ecco perché il 13 di gennaio, tutti gli anni, la piccola comunità sembra risvegliarsi a nuova vita, quando il sole ritorna a fare capolino dopo la lunga notte artica (2 mesi di buio totale). Si gioisce e si festeggia sulla collina di Sermermiut. Quella che per noi è un’anomala bizzarria per i giovani soprattutto è una triste condizione di vita. Se non si cede all’alcool si fa’ l’amore. Ilulissat pullula di bambini e asili infantili. Ilulissat, “la città degli iceberg”, (in lingua inuit) convive oltre che con i ghiacci con una comunità di quasi 6.000 cani, così numerosa da superare i 4.700 abitanti della città. Sono gli eskimo, razza pura, dato che non è possibile portare alcun cane in Groenlandia, proprio per preservare questa specie, forte da sopportare le intemperie del clima e resistere a lunghi digiuni. Di vitale importanza nell’economia della città, servono a trainare le slitte nel periodo invernale, in particolare per andare a cacciare. I cani da slitta fanno parte del paesaggio. Si sentono abbaiare e ululare di continuo. Vivono legati a delle corde all’incirca di sei metri e il loro spazio vitale è un misero fazzoletto di terra. Solo ai cuccioli e alle femmine, in attesa, è consentito girare liberamente per la città. I cani vecchi, ormai inutili, sono lasciati deliberatamente, senza collare, affinché diventino facile preda degli accalappiacani comunali che li abbattono a colpi di fucile. Le case hanno tutte colori sgargianti: blu, azzurro, rosso, arancione, giallo, verde; questo per alleviare le lunghe notti e le cupe giornate di brutto tempo. Le strade sono un continuo saliscendi e finiscono ai bordi della città. L’unica asfaltata, al di fuori dei limiti cittadini, è quella che porta all’aeroporto. Il manto stradale ghiacciato per tutta la giornata le rende pericolose non solo per i pedoni (attenzione a camminare); ma per le auto stesse, molti sono i mezzi ammaccati che sbandano a causa della scivolosità. Esiste una sola industria e si trova al porto. Si tratta della Royal Greenland, che lavora gamberetti e altro genere di pesce, dando lavoro alla maggior parte della popolazione. Il porto è semi gelato e ci sono delle barche ancora bloccate dal ghiaccio. Da annoverare tra le città più sperdute del pianeta, Ilulissat è da visitare non solo per la forma d’arte eccelsa dei suoi iceberg, che capeggiano nell’antistante baia, ma per l’insolito stile di vita, o anche, semplicemente, perché fa pensare
Ecco allora il punto: luogo idilliaco o luogo nefasto? Ilulissat che posto occupa nel villaggio globale? Sta per aprirsi al mondo o è esattamente il contrario? Ognuno avrà la sua personale risposta. Quella di Silver, il cui vero nome è Silverio Scivoli, ex Corvi, “mitico” gruppo degli anni sessanta, titolare dell’agenzia Tourist Nature, insieme al figlio Crhistian, personaggio carismatico, la sua risposta la diede tempo fa’, …lui vi vive ormai da trenta lunghissimi anni.

La baia davanti alla città è quella famosa di Disko, il pack che si scioglie è il segno del risveglio della natura e dell’ormai prossimo arrivo della primavera, ma soprattutto il mare non è più imprigionato dal ghiaccio e questo significa che è possibile effettuare la gita in barca fino a Iluminaq. Per arrivarci è gioco forza passare in quel braccio di mare che centinaia e centinaia di iceberg, staccatisi dalla calotta glaciale, raggiungono dopo aver disceso per circa 30 km, il Kangia Icefjord, il fiordo di Ilulissat. Quando il fronte del ghiacciaio Sermeq Kujalleq, che vanta la maggiore produzione di iceberg di tutto l’emisfero settentrionale, viene a contatto con l’acqua marina, la temperatura più calda del mare provoca il distacco di blocchi di ghiaccio, dando origine a monolitici iceberg. Paradosso della natura l’acqua è una sostanza che allo stato solido pesa meno che allo stato liquido, per questo gli iceberg galleggiano. Una volta in mare aperto le correnti li spingono verso sud…, proprio da qui partì l’iceberg che a sud di Terranova, la notte fra il 14 e 15 aprile 1912, affondò il Titanic.
Questi iceberg dalle dimensioni e forme stravaganti, tutti insieme, formano il più strano e meraviglioso dei musei a cielo aperto, costituito da migliaia di monumenti di ghiaccio: obelischi, macigni, colonne, cime, pinnacoli. Ogni iceberg è in sé un’opera unica. Qui, per un attimo, l’era glaciale sembra ancora realtà. Non si può immaginare la grandezza che raggiungono; alti cento metri e più, lunghi un chilometro e più. Le onde del mare vi si abbattono come frangenti contro gli scogli. Vi passiamo vicino quasi a sfiorarli, mi domando se non sia pericoloso dato che sotto la parte emergente si nasconde una massa sette volte maggiore di quella visibile. Sinistri pensieri mi assalgano quando vediamo in lontananza un blocco di ghiaccio crollare in acqua, spezzando quello che fino allora era stato l’unico rumore: lo schioppettio della nostra imbarcazione. Capisco, finalmente, perché gli inuit hanno quasi cento parole diverse per definire il ghiaccio, costituito com’è da una miriade di striature e infiniti colori: bianco, grigio, blu, indaco, azzurro, celeste, turchese, verde chiaro, prugna, lilla, rosa.
La banchisa di ghiaccio (il pack) è ancora particolarmente unita e spessa in prossimità della costa tanto che l’imbarcazione non riesce ad avanzare così si è costretti a passare più al largo. Nel corso della navigazione il timoniere è attento a schivare grandi e piccoli pezzi di banchisa alla deriva, ciò nonostante tonfi funesti e improvvisi proseguiranno ininterrottamente per tutto il giorno. La prua sbatte di continuo, stiamo attraversando una zona cosparsa da una miriade di piccoli pezzi di ghiaccio galleggianti che salgono e scendono seguendo il moto ondoso. Il panorama spazia tra i gelidi vuoti di orizzonti di cristallo e atmosfere mitiche, assolutamente pure e limpide. Di tanto in tanto stormi di uccelli annunciano i pescherecci vi volano sopra pronti a catturare prede facilmente accessibili, gli scarti e le interiora del pescato.
L’escursione a piedi sino a Sermermiut sarebbe poco più di una scampagnata; la quota, il dislivello e la lunghezza sono irrilevanti, ma le condizioni della giornata sono quasi proibitive. Il percorso è completamente ghiacciato, la temperatura s’aggira sui -15°C, c’è vento e un po’ di foschia, ma il sentiero è molto ben segnalato da pali che fuoriescono di circa un metro dallo strato di neve. Gli immensi iceberg visti ieri sono oggi appena riconoscibili il trekking perderebbe il suo scopo trattandosi di una camminata panoramica che si sviluppa a circa 100mt sopra il livello del mare proprio di fronte al punto dove gli iceberg lasciano il fiordo di Ilulissat. Ma le avverse condizioni ambientali trasformano la gita in qualcosa di speciale. Si assapora l’ebbrezza dell’esplorazione, intorno è tutto bianco, se ne è totalmente sopraffatti, e si prova la sensazione, fino ad oggi sconosciuta, dell’assoluto silenzio. Procediamo ognuno col suo passo e con i propri pensieri, ascoltando il silenzio.
Per effettuare l’escursione in slitta al “Kangia - Ilulissat Icefjord” fino ad arrivare a costeggiare il fiordo di Sikuluitsoq si sfida il gelo mattutino. Nel campo alla periferia della città l'agitazione tra i cani cresce sempre più, man mano che intuiscono che tocca proprio a loro partire. I fortunati lanciano ululati di gioia, come veri e propri lupi; gli altri, alzando il muso verso il cielo, fanno lo stesso, ma i loro sono ululati di pianto. Tutte le volte è sempre così: quando si prepara una slitta regna la confusione per l’irrefrenabile desiderio che hanno i cani di correre. La calma torna solo quando si parte e iniziano finalmente a correre.
Lungo il percorso della nostra carovana, tre slitte, trainate ognuna da 15 cani, il vero e unico protagonista è il paesaggio. Regna un panorama desolato e senza alcuna apparente vita. I cani, uno accanto all’altro, corrono in maniera sfrenata, corrono, corrono tanto che sembra siano inseguiti, da chi e da che cosa non si sa, ma forse corrono semplicemente verso una presunta o immaginaria libertà. A tirare, in testa alla slitta c’è il capo branco, il cane più forte, dietro a ventaglio tutti gli altri. Costui guida i compagni di cordata ringhiando quanti cercano di sorpassarlo. Accelera e diminuisce la corsa a seconda delle condizioni del terreno. Il resto lo fa’ il conducente, che nel caso della mia slitta, frusta un cane che non vuole saperne di tirare e invece di stare in formazione “a ventaglio” con gli altri se ne va per conto proprio e rimane indietro intralciando il lavoro della comitiva. I cani rispondono a pochi e semplici comandi: Idì! Idì! Idì! quando devono andare a destra, Yù! Yù! Yù! quando devono andare a sinistra; uno scudiscio di frusta quando devono accelerare. Procedendo il loro pelo irsuto si ricopre di un sottile strato di brina mentre le calde lingue penzolanti, a contatto con l’aria fredda, sprigionano vapore che gela subito e si ghiaccia sui peli del viso. Le slitte sono di legno interamente ricoperte di pelli con due sorte di binari che scivolano sulla superficie della neve. I cani sono bardati con finimenti di cuoio e sono attaccati alla slitta con una corda. 
Lasciata la piana di Ilulissat una lunga salita, di circa 400 metri di dislivello, porta ad un altopiano. Ci sono voluti cinquanta minuti per superarla, i cani ansimano dalla fatica così si fa una sosta per farli riposare. Gli animali s’accovacciano sulla neve, i più giovani giocano azzuffandosi, i più anziani sonnecchiano stiracchiandosi, quasi a voler conservare saggiamente le forze. Tra una fermata e l’altra s’incomincia a prendere confidenza, sono cani mansueti e docili, ma puzzano terribilmente. Il colore dominante del pelo è il beige, il bianco e il nero, con riflessi marrone. Si raggiunge la sommità di una collina con un belvedere da qui si vede il primo, dei tanti stupefacenti spettacoli naturali che vedremo nel corso dell’escursione: le vedute dall’alto del fiordo di Kangia (Ilulissat Icefjord). S’attraversa ora una regione ancora più desolata e silenziosa, unico suono il sibilo del vento, la sensazione palpabile e visibile e di trovarsi a far parte di una spedizione d’altri tempi. Un'ora trascorre, e poi un'altra ancora. Fino alle undici il sole in cielo risplende una luce morente che si ravviva solo intorno a mezzogiorno, per ritornare tale dopo le tre. Un tramonto lunghissimo al di sopra dell'orizzonte, pallido e dorato, ci accompagnerà fino al tardo pomeriggio. Finito di costeggiare il fiordo di Ilulissat s’imbocca una pista, ben tracciata e battuta, dove i cani faticano meno, che porta all’ennesimo belvedere che domina il Sikuluitsoq, la parte più interna del fiordo di Ilulissat. Essendo qui molto vicini è possibile vedere nei dettagli il surreale paesaggio. Si vedono distintamente grattacieli e palazzi di ghiaccio emergere dalla banchisa, senza neanche troppa immaginazione sembra di trovarsi nella Manhattan dei ghiacci. Il paesaggio è fantastico, ancor di più rispetto al fiordo di Kangia, qui si vedono centinaia e centinai di iceberg, immobili e compressi nel ghiaccio. Sulla via del ritorno si scende tanto quanto si è salito all’andata. Le discese sono divertenti ma pericolose, la slitta scivola velocissima così i muschers sono costretti a mettere i cani dietro le slitte a far da freno. In una discesa più ripida, su una pista in cattive condizioni i cani rovesciano la slitta di Mavi che rimane capovolta e incastrata nella neve finché non giungiamo ad aiutarla e liberarla. Percorrendo un punto in piano a velocità sostenuta, da un orizzonte all’altro, non si sentono che “lo scivolare delle slitte e l’ansimare dei cani”, questo è il ricordo più autentico dell’inverno artico e solo ora comprendo quanto scrisse Knud Rasmussen:“…datemi l’inverno, datemi dei cani e prendetevi pure tutto il resto…”

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