"Reportage di Viaggio" è la raccolta dei viaggi organizzati da Socchi Adriano, titolare dell'agenzia CULTURE LONTANE


Vietnam del Sud. Saigon e il delta del Mekong.

04.10.2005 22:24

“Is Iraq another Vietnam?” Titolano i giornali di tutto il mondo dopo le sconvolgenti rivelazioni fatte da alcuni marines pentiti riguardo a presunti stupri collettivi a danno di giovani donne iraqene e ad uccisioni gratuite perpetrate tra la popolazione civile. 

Ancora una volta la storia non ha insegnato niente! 
Si aspettano nuove clamorose rivelazioni, che per quanto efferate non potranno mai eguagliare i disumani crimini accaduti in Vietnam dove si è combattuta una guerra spietata, atroce e barbara che segnò profondamente le coscienze del mondo intero, ma, a quanto pare, non abbastanza.

Sono a Saigon da un solo giorno e non riesco proprio a fare a meno di pensare alla guerra. Quando si tocca il suolo vietnamita i pensieri vanno inesorabilmente alla Guerra Americana, come la chiamano i vietnamiti, e più che mai quest’anno perché com’è riportato dai molti manifesti sparsi un po’ dappertutto in città, il 25 aprile del 1975, ricorreva il trentesimo anniversario della fine della guerra del Vietnam. 

SAIGON
[… A Saigon, che oggi si chiama Ho Chi Minh, si respira ancora l’atmosfera di quel tempo perché dopo la guerra non è cambiato niente. La città si è addormentata e aspetta un principe che la risvegli con un bacio...]
La gran quantità di moto che circola per le strade è la prima cosa che colpisce quando si arriva a Ho Chi Minh. Vicino l’aeroporto, un cortile, grande almeno quanto un campo da calcio, è pieno zeppo di motorini ordinatamente parcheggiati.
Al calar del sole il movimento continuo di moto, motorini e biciclette aumenta diventando un’ondata fluttuante. Mi chiedo come facciano ad andare avanti e soprattutto a non avere incidenti. Dove andrà mai tutta quella gente? Non va da nessuna parte! Semplicemente passeggia. A differenza di noi che lo facciamo a piedi in piazza o sotto i portici, i vietnamiti lo fanno in moto per strada. Girano per conoscersi, per parlare, per passare il tempo. Uomini, donne, ragazzi con l’amica dietro, seduta in posizione da amazzone; ragazzi alla moda alla ricerca di avvenenti ragazze che circolano anche in quattro strette strette una all’altra; intere famiglie di cinque, sei componenti si muovono su un solo motorino. Cosa ancor più incredibile tutti guidano rilassati, conducono le moto discorrendo tranquillamente, si salutano, solo il traffico è confuso.
Osservo tutto dal marciapiede e attraversare, i primi giorni, sarà un’impresa poi… ci si fa’ l’abitudine. S’attraversa buttandosi a capo chino, saranno i mezzi a preoccuparsi di schivarmi.

La sera del nostro arrivo ci precipitiamo nel famoso bar Binh Soup Shop. Celebre per essere stato il quartiere generale dei Vietcong a Saigon. Qui, per sfuggire alla calura, occupiamo un tavolo sopra il quale gira pigramente un ventilatore e consumiamo un piatto di pho bò zuppa di tagliolini al brodo di manzo conditi con erba cipollina, naturalmente con le bacchette. Il brodo si beve direttamente dalla scodella. Alla faccia del nostro galateo. Gustiamo la prima di tante specialità culinarie del Vietnam sfogliando nel contempo quaderni, riviste, articoli e foto di privati e di reduci della guerra: americani e vietnamiti. Il bar è rimasto così com’era con il dichiarato obiettivo di far rivivere oggi l’atmosfera del triste passato. Scopo pienamente raggiunto poiché molti reduci ritornandoci si commuovono a tal punto da non riuscire a trattenere le lacrime.
Sulla via del ritorno al nostro hotel passiamo in rassegna il Palazzo del Comitato del Popolo, sarebbe un attentato non farlo dato che è l’edifico più fotografato dell’intero Vietnam. Una piazza attira, poi, la nostra attenzione perché piena di ragazzi impegnati ad eseguire esercizi a metà tra lo yoga e il karaté.
Giunti nei pressi dell’albergo entriamo a consumare qualcosa al Two Saigon. Uno dei tanti locali notturni di tendenza di Pham Ngu Lao. Vediamo molte ragazze di facili costumi in cerca di uomini benestanti, tanto meglio se stranieri. Sono per lo più giovanissime, hanno tutte i capelli lunghi neri e lisci. Sono vestite all’occidentale, con fatiscenti decoltè data la loro corporatura esile, pantaloni e gonne corte da cui fuoriescono gambe magre e storte, oserei affermare ridicole per i canoni di bellezza occidentali. Non cerchiamo una donna, ma se ci si ferma a bere una media di birra 333 e non si è in compagnia con delle amiche è difficile tenere queste ragazze a debita distanza. Non cerchiamo neppure del fumo. Passeggiando, però, quanto basta, su e giù sul marciapiede davanti al nostro hotel, dopo un po’ un tipo s’avvicina per venderci una canna. Capisco allora cos’era Saigon per i soldati americani. Come potevano trovarsi, dopo mesi di guerra in mezzo all’inferno della foresta, in licenza premio a Saigon, in camera con una donna, a bere una birra e fumare una canna. Saigon sembrava loro il paradiso!

Il giorno seguente di buon mattino facciamo visita al “Museo dei Residuati Bellici”. All’ingresso una frase preannuncia le drammatiche testimonianze che vi sono raccolte: - “La guerra fa’ diventare l’uomo una bestia” -. Cinque sono gli spazi tematici. In una prima sala si possono vedere i manifesti propagandistici della guerra del tipo “Out of Vietnam” o “End the war in Vietnam! Now”. Nel cortile si trovano un carro armato, un elicottero, un aereo B.52, una bomba al napalm e pezzi d’artiglieria dell’esercito americano. Entrati nel corpo centrale seguendo il percorso di visita c’è dapprima una sala con centinaia di disegni fatti da bambini aventi per argomento la guerra. Segue il grande salone che ospita una mostra della guerra del Vietnam. Le atrocità delle fotografie documentano gli orrori della guerra e tengono avvinto lo sguardo del visitatore. Attimi di terrore e delirio umano colti dagli scatti di professionisti e no; sì tratta di foto tanto agghiaccianti quanto celebri, che a suo tempo fecero il giro del mondo e sono riprodotte su tutti i libri di storia. Tra le più ripugnanti quella di soldati americani che tengono a mo di trofeo la testa mozzata di tre soldati Vietcong sopra ai loro rispettivi corpi; quella di un carro armato che trascina dei morti con una fune; civili vietnamiti torturati dai soldati e, ancora, tre corpi esamini fatti rotolare su del filo spinato. La più orribile di tutte, non a caso l’unica a colori dell’intera raccolta, quella del massacro del villaggio di My Lai dove si vedono corpi e volti di donne e bambini insanguinati e mutilati. Per quanto concerne le più famose vi sono quella della bambina nuda bruciata dal napalm che corre in mezzo alla strada e del colonnello Nguyen Ngoac Loan che spara a bruciapelo alla testa di un prigioniero vietcong, con le mani legate dietro alla schiena. Immagini dell’assalto all’ambasciata americana e dello sbarco americano a Da Nang l’8 marzo 1965. 
Infine rimane, ma solo per i più audaci, la piccola saletta contenente le foto dei bambini nati deformi a causa dell’agente arancione e come se non bastasse, per quanti avessero lo stomaco davvero forte, la raccapricciante visione dei mostruosi feti di neonati le cui madri furono costrette ad abortire per volontà del governo Vietnamita affinché non si mettesse al mondo una generazione imperfetta. 

CAODAISMO
Lasciamo per un intera giornata Saigon e il suo traffico di motorini per ritrovarci sulla strada diretta a Tay Ninh in mezzo ad un traffico prevalentemente di motorini. Dopo circa un centinaio di chilometri giungiamo, in tempo, alla nostra meta: il Grande Tempio Cao Dai, la Santa Sede del Caodaismo. Nel tempio, ogni sabato, alle dodici, si tiene una suggestiva funzione (corrispondente alla nostra messa domenicale) a cui si può assistere dal balcone del piano superiore. Da questa invidiabile posizione vediamo entrare dapprima i clerici caodaisti vestiti di color azzurro, giallo e rosso, che sono anche i colori predominati del tempio, i quali devono avere, evidentemente, un preciso significato. Di seguito entrano i fedeli tutti vestiti con una tunica bianca accompagnati da una tipica nenia orientale. L’interno è un’unica grande sala, sostenuta da colonne, sulle quali si arrampicano draghi multicolore. Sull’altare c’è un occhio enorme, l’occhio divino (che tutto vede), che credo, data l’ubicazione, ha lo stesso significato che la croce ha per noi cristiani. La religione caodaista è un miscuglio di buddismo, confucianesimo e cristianesimo come testimonia un affresco all’ingresso dove sono raffigurati lo statista cinese Sun Yatsen, il poeta vietnamita Nguyen Binh Khiem e lo scrittore francese Victor Hugo intenti a firmare la triplice alleanza religiosa tra Dio e gli uomini.

CHU CHI 
Non molto distante dall’oasi di “pace religiosa” del tempio di Cao Dai si trova la zona dei cunicoli di Cu Chi, il luogo dove ci furono gli scontri più sanguinosi della guerra. In superficie sventolava la bandiera americana, ma sottoterra quella dell’esercito del Vietnam del Nord. Oggi è senza dubbio la più grande attrazione turistica del Vietnam. All’ingresso un plastico in sezione della rete delle gallerie e un filmato sono esaustivi della vita che si conduceva in queste vere e proprie città sotterranee e della guerra che si combatteva per queste vie inumate. Nei cunicoli di Cu Chi si nasceva, si dormiva si mangiava… Si combatteva, ci si muoveva a carponi, al buio, nel caso d’inalazione di gas da parte del nemico ci si tuffava alla cieca in dei pozzi e si riemergeva in un canale. Oppure si poteva restare nascosti per ore respirando attraverso una cannuccia. Non vedo l’ora di vedere questi reticoli di 200 km di gallerie su tre piani, grandi abbastanza solo per i magri e piccoli vietnamiti, di cui gli americani, inizialmente, sospettavano soltanto qualcosa, ma non sapevano nulla. E una volta scoperti arrivavano agli imbocchi, ma non riuscirono ad entrarci. Noi scendiamo e percorriamo una piccola sezione di questi cunicoli, appositamente allargata per ospitare il corpo di un occidentali, in maniera che ci si possa rendere conto dello spazio e del buio in cui i Vietcong dovevano vivere e spostarsi, da un posto all’altro, senza farsi vedere dagli americani. Avverto fatica e una certa umidità claustrofoba, ma sono alla fine del breve tragitto di 50 metri. Immagino la nostra guida mentre percorreva in fretta le buie e strette gallerie con zaino e fucile in spalla. All’uscita dei cunicoli, in un negozio che pare essere messo li apposta, consumo un bicchiere di liquore di serpente per riprendermi dal senso di nausea procuratomi nella galleria. Guardo con commiserazione un gruppo di giapponesi interessati all’acquisto di accendini, del modello a zippo, che la venditrice assicura appartenuti ai soldati americani… non sanno cosa gli aspetta. Io e Cris, invece, compriamo un paio di sandali, fatti con un pneumatico di gomma, gli stessi che portavano i vietcong e ancora oggi usano i reduci.

Cu Chi è il luogo più rappresentativo della guerra, qui si sono svolti durissimi combattimenti, qui gli americani hanno avuto paura, qui gli americani hanno perso la guerra. 
Ora, soltanto ora, mi rendo conto di essere un testimone oculare della guerra del Vietnam.

DELTA DEL MEKONG
Sono appena settanta i chilometri di strada che separano Ho Chi Minh da Mytho sufficienti a capire che l’agricoltura del Vietnam si basa essenzialmente sul riso. Vediamo campi sterminati di riso punteggiati da mille colori. Sono quelli dei vestiti delle donne impegnate nella raccolta, tutte rigorosamente con in testa il caratteristico cappello a cono.
Ormai nei pressi dell’imbarcadero, lungo la strada, vediamo un gruppo di biciclette venirci incontro che ci impediscono di proseguire, pare il gruppo di una corsa ciclistica del giro d’Italia, in realtà si tratta di alunni che escono da scuola. I ragazzi portano lunghi pantaloni neri e una camicia bianca, alcuni la giacca; le ragazze sono vestite con l’ao dai, l’abito tradizionale vietnamita, a vederle passare sembrano tante libellule con i loro l’ao dai svolazzanti.
Finalmente c’imbarchiamo. Da Mytho risaliremo il fiume Mekong fino a Siem Reap in Cambogia!
Sono sul tetto dell’imbarcazione e vedo passarmi sulla testa gli aerei dell’aviazione americana impegnati a lanciare una miriade di bombe: ecco come doveva essere il teatro di guerra del delta. Anche qui sul Mekong tutto riconduce alla guerra, ma oggi questo stesso luogo fa’ parlare di sé per via dell’influenza aviaria, che in questi ultimi tempi tiene il mondo intero con il fiato sospeso. La diffusione del focolaio è partito da un angolo remoto del delta mietendo già 70 vittime. Nella regione del Vietnam del Sud vi sono centinaia di milioni di polli, anatre e oche che s’aggirano liberamente nelle campagne e nei villaggi per cui il contagio è quasi scontato. Il virus poi fa’ particolarmente paura da quando si è incominciato a sospettare che può trasmettersi da uomo a uomo e non solo contraendolo stando in contatto con pollame malato. La catastrofica parola pandemia è sulla bocca di tutti. Il ministero degli esteri sconsiglia un viaggio in quest’area del pianeta, invece, come il solito, da quel fatalista che sono, mi ritrovo proprio nel cuore della zona del contagio. 

Mentre il nostro barcone, molto stretto e basso, percorre lentamente un braccio di fiume del delta, io sto seduto a prua con una mano immersa nell’acqua, intento ad osservare tutto molto attentamente. Grosse barche con grandi occhi dipinti sulla prua ci superano ora alla nostra destra ora da sinistra, in questo frenetico via vai i sampang sembrano impiegarci un’eternità per spostarsi da una sponda all’altra. Lungo il fiume ci sono case e mercati, case e mercati galleggianti, catapecchie e catapecchie galleggianti, fabbriche, strade, insomma la vita scorre frenetica. Per raggiungere un’antica casa coloniale francese, che conserva intatta tutta la passata eleganza, e visitare l’attiguo giardino di bonsai ci trasferiamo su un sampang e così a pelo d’acqua cogliamo ancor di più il normale fluire dell’esistenza accompagnati dal lento movimento dei remi.
Il delta ci riserva un tramonto costituito da una luce irreale, unica a metà tra il rosso e il marrone. Partecipiamo a questa particolare atmosfera dal balcone del nostro albergo: una palafitta! Ceniamo e dormiamo su una palafitta nel bel mezzo del delta su chissà quale innominabile isola. I nostri letti sono delle brande appartenute all’esercito americano. Prima di prendere sonno stiamo distesi sui letti ognuno con i suoi pensieri e per quanto mi riguarda ascolto la pioggia che cadrà per tutta la notte imperterrita quasi a voler scalfire il tetto di assi di legno. All’alba la luce di un terso sole spazza via la paura dell’abbondante pioggia notturna. Partiti, dopo poco meno di un chilometro, il Mekong appare diverso da quello del giorno prima. L’acqua del fiume scorre più torbida, la corrente forma piccoli vortici e mulinelli d’acqua, qua e là, trascinando foglie e rami di alberi. Ci accorgiamo che qualcosa non va per il verso giusto, ma soltanto al confine con la Cambogia capiremo che cosa: il Mekong è straripato. Lungo il percorso facciamo tappa al mercato del pesce di Vingh Longh. Il luogo dove si svolge è coperto da un tetto di lamiere. Le venditrici tutte donne vendono pesci lucidissimi, pesano la mercanzia ancora con bilance a peso. Camminiamo su un sottile strato di melma nera e puzzolente. Il mercato è concitato, ma non frenetico. Dall’altro lato della strada c’è un piccolo mercato del pollame. Va bene il fatalismo, ma questa volta non ci addentriamo. Quando arriviamo a Chau Doc ci precipitiamo al porto per affittare un imbarcazione e andare a vedere il caratteristico mercato galleggiante. Sarà una piccola delusione. Si tratta in realtà di un mercato all’ingrosso per cui non troviamo quell’atmosfera tipica che, per esempio, abbiamo avvertito a Vingh Longh. Delle grosse imbarcazioni stanno ancorate proprio nel centro del fiume e altre più piccole vi s’accostato per comprare. Per capire quale prodotto smerciano, a poppa o a prua, una fune tiene appesa una rete contenente il prodotto che si vende: banane, meloni, pantaloni, ecc., ecc. Troviamo più interessante il particolarissimo villaggio mussulmano di Cham dove si possono vedere delle donne vestite rigorosamente in nero, con il velo e il cappello a cono. Una visione inconsueta e anche un po’ ridicola. Infine, ospiti in una casa galleggiante, ci offrono del pesce alzando semplicemente una botola dal pavimento di legno. Quando si dice pesce fresco!
Ormai è il tramonto quando andiamo a ritirare i biglietti del traghetto, acquistati nel pomeriggio, che da Chau Doc ci porterà a Phnom Penh in Cambogia. Ha inizio un altro viaggio.

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