"Reportage di Viaggio" è la raccolta dei viaggi organizzati da Socchi Adriano, titolare dell'agenzia CULTURE LONTANE


Bienvenidos, esta es Copacabana

29.08.2000 18:12

Per entrare in Bolivia, da Puno, in Perù, sono possibili due strade. La più diretta è attraverso la frontiera di Desaguadero; in questo caso la tappa d’obbligo, prima di giungere a La Paz, sono le rovine di Tiahuanaco. Noi scegliamo la via più lunga. La nostra meta è la città di Copacabana.


Partiamo da Puno con il micrò, il caratteristico mini-bus sud americano, carico sempre all’inverosimile. Naturalmente non sfuggiamo alla regola; quando, ormai, siamo schiacciati come sardine e pensiamo di partire, vediamo l’autista vendere altri cinque biglietti. Morale della favola, siamo ventidue passeggeri quando avremo dovuto essere non più di quindici. Finalmente partiamo. Attenzione: i micros hanno orari indicativi poiché, in realtà, partono solo quando sono pieni, anzi, scusate, strapieni. Per tanto se scegliete questo mezzo di trasporto mettetevi l’anima in pace, starete stretti! Lungo le due ore e trenta di viaggio costeggiamo il lago Titicaca fino a Yunguyo. Il micrò si ferma nel centro del paese a circa due o tre chilometri dalla frontiera, ma non è un problema. Non si ha neppure il tempo di scendere per scaricare i bagagli che un’orda di gente, non importa come, a piedi, in bici o in taxi, è disponibile a trasportarci al confine. Qui non occorre conoscere l’arte della contrattazione per farsi abbassare il prezzo, ma abbiamo fretta, infatti, sono le 15:30, in Perù, che significa le 16:30 in Bolivia. Per cui abbiamo solo trenta minuti prima che chiuda la frontiera boliviana. Prendiamo il mezzo più caro, più comodo, ma soprattutto più veloce, ossia il taxi ed in cinque minuti siamo alla frontiera. Entriamo nell’ufficio dove non troviamo nessuno, a quanto pare siamo gli unici ad attraversare il confine. In un minuto, tutti e quattro, abbiamo il passaporto con il relativo timbro d’uscita. Percorriamo a piedi i centocinquanta metri, in leggera salita, che ci separano da un arco in pietra, oltrepassato il quale si è in Bolivia. 

Le formalità doganali sono altrettanto sbrigative, e dire che queste avrebbero dovuto essere, in base alle notizie raccolte prima della partenza, lente e complesse. Sarà perché siamo intorno all’orario di chiusura? Chissà. Nel frattempo però l’ultimo micrò è partito e Copacabana dista una decina di chilometri. In giro non si vede un mezzo di locomozione che sia uno. Incontriamo un gruppo di francesi diretti in Perù assai più rilassati di noi per via dell’ora in più a loro disposizione, i quali hanno tempo e modo per beffeggiarci della recente sconfitta subita ai mondiali.

Ci accorgiamo subito di essere in un altro mondo, rispetto al Perù, quando ci avviamo alla casa de cambio, una cassetta di legno capovolta con sopra delle mazzette di banconote tenute ferme da delle pietre. Il cambiavalute è seduto su uno sgabello appoggiato ad un albero, ed ha l’aria spenta.. Cambiamo il minimo necessario. Al solito alle frontiere il tasso è sfavorevole. Nel frattempo passa una mezzora e per nostra fortuna arriva un taxi che prendiamo senza alcuna possibilità di contrattare sulla cifra esorbitante sparata dall’autista. Per fortuna siamo in Bolivia, lontani dai parametri di pagamento di un qualunque taxi occidentale. La strada che conduce a Copacabana è sterrata, ma in buona condizione e molto larga. Il tassista ci lascia all’hotel Ambassador, in plaza Sucre. Prenotiamo le camere, posiamo i bagagli e ci precipitiamo a godere il crepuscolo dalla spiaggia. Assistere al tramonto sul lago Titicaca è indimenticabile. Sarà quell’atmosfera addormentata che regna nel paese, di cui si è immediatamente coinvolti, sarà quel cielo sempre terso e pulito, sarà…, ma qui il tramonto non delude mai. Nell’oscurità da riva saliamo verso il centro del paese, lungo la strada principale. La via è la sola asfaltata, insieme alle due piazze, seppur in maniera alquanto sconquassata. L’illuminazione è tale solo sulla piazza dove si trova la cattedrale. In tutte le altre vie è notevolmente scarsa e si ha l’impressione che stia per spegnersi da un momento all’altro. Alcuni bambini giocano a calcio nel bel mezzo della strada, due anziani a carte, seduti sul marciapiede. I negozi sono chiusi. In giro c’è poca gente. Soltanto nei ristoranti sembra esserci un po’ di attività. Dopo averne girati due o tre, quanto basta per rendersi conto di costi e pietanze, ci fermiamo in uno dove incontriamo altri turisti. Un’ora e mezza dopo, quando usciamo, il paese è deserto. Sembra notte fonda, invece, sono solo le 20:30. Da queste parti la vita è ancora scandita dalla luce del giorno. L’attività iniziano con il sorgere del sole e finiscono al tramonto.

All’albergo ci attende una cattiva notizia: l’acqua calda era disponibile solo fino alle 19:00. Peccato. Tra l’altro i bagni belli, ampi e puliti e interamente costruiti in pietra. Le camere, invece, sono piuttosto disadorne oltre ad essere senza riscaldamento. In compenso i letti hanno diversi strati di coperte. Alle 22:00 ci viene spenta la luce.

L’indomani di buon mattino, senza neppure un matè de coca per colazione, siamo sulla scalinata lastricata che porta ai 4.007 metri del monte Calvario. L’aria è frizzante, la temperatura sarà di uno o due gradi sopra lo zero, ma la giornata, come sempre, si presagisce splendida. Quando giungiamo il sole è appena sorto. Lo spettacolo è ancora più impareggiabile del tramonto della sera precedente. IL Cerro Calvario domina il lago e l’intera baia di Copacabana, che divide in due. Da questo belvedere il Titicaca sembra davvero un mare non vedendosi all’orizzonte la sponda opposta. Con noi ci sono altri quattro turistici accompagnati da una guida, del tutto superflua per l’ascensione, ma utilissima per conoscere curiosità e informazioni. Così scopriamo che in occasione del Venerdì Santo i pellegrini, provenienti da tutto il Sud America, giungono fin qui a compiere penitenza lungo le quattordici stazioni, contraddistinte da una grossa croce, dislocate sulla salita del Cerro Calvario. Finalmente è spiegato il nome della montagna. In ogni stazione i fedeli si fermano, pregano e depositano un sasso. Una volta in cima il rito vuole che brucino dell’incenso, accendino una candela e comprino dei beni materiali in miniatura, con la speranza che la Vergine conceda loro tali beni. La processione a lume di candela, assicura la guida, è coinvolgente. Chi si trovasse da queste parti a Pasqua è avvertito. 

La stessa Copacabana è uno dei luoghi di pellegrinaggio più importanti dell’America Latina. La guida Routard la definisce "il Lourdes boliviano". Nella cattedrale che ci apprestiamo ad andare a visitare è conservata, infatti, la Virgen Morena del Lago, ossia la Vergine Nera del Lago che da quando fu collocata sull’altare, nel lontano 1583, non è più stata rimossa. La leggenda narra che da quel momento in poi iniziarono tutta una seria di miracoli; tra cui la fine di un’impressionante successione d’inondazioni del lago Titicaca. Così, secondo la superstizione locale, qualora fosse spostata la statua, il Titicaca si produrrebbe in nuove terrificanti inondazioni. La Madonna si festeggia il 5 e 6 agosto, in coincidenza con la festa dell’indipendenza; per tutta la settimana è facile immaginare una fiumana di pellegrini con tutti gli annessi e connessi della situazione.

La cattedrale si trova in posizione elevata rispetto al paese. Colpisce per il bianco candore della sua costruzione che si staglia nel cielo azzurrissimo e contrasta con le cupole decorate di azulejos, tipiche mattonelle dell’arte portoghese colorate di giallo, blu e verde. La piccola cappella della Madonna del Velo cattura subito l’attenzione. Si tratta di un lungo corridoio illuminato solo da candele votive, dove scorgiamo appena le figure di qualche fedele intento alla preghiera. L’intimità di quest’appartata chiesetta fa da contraltare al misticismo che si respira nella camera della Vergine Nera.

Un insolito appuntamento che giornalmente si tiene davanti alla cattedrale, tra le 10:00 e le 11:00, particolarmente grandioso, ci dicono, il sabato e la domenica, è il "battesimo delle auto." Auto, pulmini e camion, in fila indiana e accuratamente addobbati, aspettano di essere benedetti con l’acqua santa dal prete. In questo modo il proprio veicolo sarebbe immune da eventuali incidenti. Un chiaro esempio di sincretismo religioso, di mescolanza della dottrina cristiana con le superstiziose tradizioni autoctone. Se il cristianesimo ha fatto proseliti sulle Ande è proprio grazie al connubio della fede con la magia.

Infine, eccoci al piccolo e quotidiano mercato. I venditori sono per lo più donne le quali vendono la propria mercanzia stendendola per terra sopra ad una coperta o sacchi di juta. Altre sfruttano delle cassette con le quali creano delle minuscole bancarelle. C’è di tutto, ma noi rimaniamo particolarmente colpiti dalla quantità di sacchi contenenti foglie di coca. In Bolivia la foglia di coca è legale. I campesiños delle Ande, come avremo modo di costatare nel nostro viaggio, la usano contro il mal d’altura e lo stress. Si è soliti dire che masticano, in realtà estraggono poco alla volta il succo, mantenendo le foglie ai lati della bocca. Ci rivolgiamo ad una venditrice per acquistarne un sacchetto. Ci chiede se ci servono per fare l’infuso di matè de coca o vogliamo succhiarle. In quest’ultimo caso assieme alle foglie viene data la lejía, una pallina di morbida pasta nera, grande quanto un pallino del gioco delle bocce. Questa si fa sciogliere in bocca insieme alle foglie per renderle meno amare ed un po’ più gustose.

Questa è Copacabana, almeno quella che abbiamo conosciuto noi in un giorno qualunque di fine agosto. Un piccolo paese, adagiato sulle rive meridionali del lago Titicaca, tranquillo e sonnolento in cui si respira ancora un’aria di altri tempi, un posto che vale certamente una visita, al di là della bellezza paesaggistica, per vivere l’esperienza dell’evolvere lento della vita, che t’avvolge e coinvolge.

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