"Reportage di Viaggio" è la raccolta dei viaggi organizzati da Socchi Adriano, titolare dell'agenzia CULTURE LONTANE


Da Kaam Samnor a Siem Reap via fiume.

06.10.2005 19:14

Sono le ore 09.30 di martedì 4 ottobre, quando vediamo sventolare una bandiera cambogiana sulla riva sinistra del Mekong questo significa che siamo al border di Kaam Samnor.

La frontiera è aperta da poco e subito, com’era facile intuire, è nato un mercato di contrabbando. Stando alle informazioni prese nella zona è diffusa la criminalità e la polizia doganiera è corrotta. Non ci aspettiamo niente di buono e siamo pronti a versare “la bustarella” per evitare inutili fastidi. Dazio da pagare per aver voluto per forza attraversare il confine tra Vietnam e Cambogia via fiume. In realtà, una volta sul posto, nulla sembra corrispondere a quelle che erano le notizie in nostro possesso. L’area sembra tranquilla e in dogana non abbiamo nessun problema. Come dice il proverbio: fidarsi è bene non fidarsi è meglio! 
Tuttavia, se durante lo sbarco, scesi per espletare le formalità doganali, un gruppo di donne e bambini ci avevano appena infastidito per venderci bibite e biscotti, al momento dell’imbarco le stesse donne e gli stessi bambini, questa volta con dei mazzi di banconote in mano, ci seguono importunandoci fin dentro il battello allo scopo di cambiare riel cambogiani, in dollari o in dong vietnamiti. Assillanti fino all’ultimo e a tal punto che qualcuno rischia addirittura di cadere in acqua alla partenza. Questo è stato l’unico inconveniente cui siamo incorsi al confine di Kaam Samnor.
Ci s’imbarca e si riparte: il Vietnam alle spalle, la Cambogia di fronte!

Lasciata la frontiera il Mekong s’allarga tanto che le sponde si distinguono appena. Proseguendo vediamo capanne sommerse fino ai tetti, incontriamo imbarcazioni piene zeppe di persone, alcune delle quali hanno la bandiera della croce rossa… ci mettiamo un po’, poi, finalmente, capiamo: il Mekong è esondato. Il via vai di barche sono i soccorsi inviati alla popolazione alluvionata rimasta senza tetto. 
Continuando a risalire la corrente, il fiume, a poco a poco, rientra in quelli che sono i suoi argini naturali. In territorio cambogiano, apparentemente il paesaggio non cambia, i soliti bambini che sguazzano in acqua, alcuni mercati galleggianti, donne e uomini ai remi che attraversano il fiume da una sponda all’altra, imbarcazioni che risalgono altre ridiscendono cariche di persone o mercanzia, ma i villaggi…, le palafitte dei villaggi, che punteggiano le rive sono assai più misere di quelle viste in Vietnam. Le prime impressioni sono quelle che poi si rivelano sempre esatte. In Cambogia s’avverte una maggiore povertà rispetto al vicino Vietnam.

Impiegheremo quasi un’intera giornata per raggiungere Phnom Penh, perciò il tempo che rimane per visitare la capitale è davvero poco. Dobbiamo necessariamente fare delle scelte. All’unanimità decidiamo di visitare il Tuol Sleng Museum il noto carcere “S – 21” all’interno del quale i khmer rossi del famigerato Pol Pot torturavano e uccidevano anche solo chi fosse lontanamente sospettato d’idee antigovernative. 
Il carcere è raccapricciante. Esattamente come allora, echi raggelanti provengono dai corridoi e dalle celle. Fisso con sgomento le foto dei civili con i corpi martoriati dalle crudeli torture. Rabbrividisco nel vedere le chiazze di sangue che ancora imbrattano i muri e gli strumenti utilizzati per procurare orribili dolori a quei poveracci fino ad indurli alla morte.
I supplizi patiti dai carcerati erano così inumani che i prigionieri preferivano togliersi la vita buttandosi dalle finestre piuttosto di continuare a subire le più pazzesche umiliazioni fisiche e morali che una mente umana possa immaginare. Pol Pot, però, pensò anche a questo e fece recintare, con del filo spinato, corridoi, balconi e finestre per impedire i suicidi. Infine mi sento scorrere il freddo nelle ossa a leggere le motivazioni che indussero a tanto orrore: bastava essere intellettuali o, addirittura, portare semplicemente gli occhiali. Se fossi nato in Cambogia, anziché in Italia, portando gli occhiali sarei stato sicuramente una vittima del regime. I Khmer Rossi di Pol Pot rappresentano uno degli episodi più tristi della storia dell’umanità! Quando agli inizi del 1979 l’esercito di liberazione vietnamita entrò nel carcere trovò solo più 7 persone vive. I morti sepolti in fosse comuni nei cortili. Il carcere degli orrori diventò, nell’opinione pubblica mondiale, un grave scandalo ed oggi è diventato il simbolo della follia umana di Pol Pot.
La preferenza attribuita al carcere “S – 21”, purtroppo, ci costa la visita alla Pagoda d’Argento, peccato davvero non vedere le 5000 piastre d’argento che contiene, ma non abbiamo nessun rammarico, l’esperienza del Tuol Sleng Museum è stata particolarmente educativa e toccante. L’UNESCO, penso, debba inserire nella lista del patrimonio dell’umanità il “carcere S – 21”, come uno di quei luoghi che testimoniano uno dei tanti genocidi perpetrati dall’uomo, affinché l’umanità intera, non importa di che religione o razza, s’interroghi sui millantati valori morali e civili conquistati. 
Interrogando il nostro animo, ci immergiamo, ancora frastornati da quanto visto, nella vita animata della piazza antistante il palazzo Reale, oggi particolarmente frenetica trattandosi di un giorno festivo. La gente viene qua per riunirsi, gli uomini per discutere, le donne a passeggiare e i bambini per giocare. La Cambogia sembra stia faticosamente cercando una dimensione di vita normale dopo le scelleratezze di Pol Pot e dei khmer rossi.

Strada facendo arriviamo al Wat Phom, che l’imbrunire rende suggestivo per via delle candele votive accese lungo il percorso d’accesso al tempio. Sulla collina vivono parecchie scimmie, le s’incontra fin quasi alla porta d’ingresso. Il tempio è vuoto ad eccezione di tre monaci buddisti, vestiti con la tunica arancione e con la testa rasata.
All’uscita dal tempio, ma in realtà in tutta la Cambogia, mendicanti, vittime delle mine, ci chiedono l’elemosina, dispiace dirlo, ma purtroppo bisogna fare attenzione a donare anche solo a uno perché immediatamente si avvicinano tanti altri. Lo spettacolo è angosciante sono tutti giovani, a chi manca un braccio, a chi entrambi, altri ancor peggio, sono addirittura senza gambe e si trascinano per terra, è un coro all’unisono di mister, mister, monsieur ignoro con il cuore in gola quei sfortunati. 
In Cambogia basta un passo sbagliato in mezzo alla campagna e si rischia di restare storpi per tutta la vita. Le persone mutilate dalle mine non sono considerate dal governo vittime di guerra e quindi non possono contare su alcun sussidio statale, impieghi o alcun che minimo riconoscimento.
La storia della Cambogia è fatta di guerre fratricide e cruenti. La guerriglia dei khmer rossi ha continuato ad uccidere indistintamente militari e popolazione civile soltanto fino a pochi anni fa'. Ancor oggi il peso della guerra è nell’aria se non altro per la presenza di tutte queste vittime delle mine.

Una corsa al mercato di Psar Thmei che ricorda uno ziggurat babilonese a fare acquisti e, poi, cena. La consumiamo al Goldfish River Restaurant. La serata inizia in maniera idilliaca. Con la luna piena, mangiamo, su di una balconata in riva al Mekong, ogni sorta di pesce, ma prima il vento, poi la pioggia, rovinano l’incanto. Typhoon, typhoon urla il proprietario invitandoci ad entrare e preoccupandosi di riparare tutti i suoi beni materiali compresa l’auto che fa’ entrare dopo mille manovre nel bel mezzo del ristorante. Solo una volta parcheggiata al sicuro, ritorna ad accudire i clienti. Passata la tempesta continua a piovere, ma meno intensamente, ne approfittiamo per ritornare all’albergo con un motorisciò. L’autista srotola dal tetto del mezzo una tela incerata per ripararci, ma nonostante ciò quando giungiamo in hotel siamo bagnati fradici. Nel bar della hall due coppie attirano la nostra attenzione. Si tratta di due anziani, grossi e grassi uomini occidentali, insieme a due giovani, piccole e magre ragazze cambogiane. E’ evidente di quale compagnia si tratta.

Di buon mattino lasciamo l’albergo per avviarci al porto ed imbarcarci sul battello diretto a Siem Reap. Lasciamo definitivamente il Mekong per l’affluente Tonlé Sap e l’omonimo lago. La vita sulle sponde del Mekong che finora ci aveva accompagnato nel corso della nostra risalita verso nord, ora sul Tonlé Sap, man mano che ci s’inoltra, diventa più rara e le rive più desolate. Presso Udong vediamo gli ultimi segni di civiltà. All’orizzonte si stagliano, sulle creste montuose, templi bianchissimi che sembrano avere per la loro posizione e grandiosità una rilevante sacralità. Il fiume, - strano, ma vero - in questo periodo dell’anno, a causa dell’abbondanza d’acqua, scorre all’indietro verso il bacino lacustre anziché verso il Mekong. All’approssimarsi del lago, poi, le coste s’allontano fino a non vedersi più e per un’ora circa sembrerà di navigare in mare aperto. Prima di sbarcare a Phnom Krom il nostro piccolo battello riduce sensibilmente la velocità per attraversare questa vera e propria città galleggiante. Qui i bambini non giocano per strada, ma in acqua. I taxi non sono automobili, ma canoe. Le case, la scuola, il piccolo museo, il benzinaio sono edificati su barche o palafitte. Al porticciolo una ressa di persone sbraitano e lottano per accaparrarsi i posti migliori e mostrare dei cartoni con scritto sopra i nomi dei clienti. Siamo stupiti, poiché tra costoro figura anche quello di Cristiano. Pensiamo ad un’omonimia con un altro italiano. Macchè. La proprietaria del nostro ultimo albergo ha fiutato nel nostro piccolo gruppo possibilità di business, per tanto ha avvertito un amico del nostro arrivo raccomandandosi di venirci a prendere. Ci ritroviamo così serviti di mezzi di trasporto e di camere per la notte.

Siamo arrivati alla meta finale del nostro viaggio, i templi di Angkor, antica capitale del regno Khmer, proprio nel cuore della Cambogia. Pochi luoghi al mondo stregano come queste rovine in parte sopraffatte dalla giungla. Angkor non è soltanto un sito archeologico che rinchiude centinaia di templi, ma è un luogo unico che ammalia e fa’ perdere il senso della realtà. Ad ognuno di noi ha trasmesso emozioni diverse: ci ha catturato, sorpreso e allontanato per un giorno intero dal viaggio e dalla civiltà.
L’appuntamento è al sorgere del sole presso l’ingresso di Angkor Wat. Vi giungiamo divisi, chi in bicicletta e chi in risciò, ma entriamo tutti insieme. Il tempio è riverente, si ha l’impressione di varcare qualcosa di proibito, e quando Angor Wat appare è come una presenza viva e non un palazzo di pietre. L’incanto è completato dall’armonia della brezza dell’alba e dai suoni arcani della foresta. 
Ad Angkor Thom si ha, invece, l’impressione di entrare in un sito archeologico appena scoperto per via dei suoi monumenti nascosti nella foresta. Un silenzio tombale aleggia nell’aria umida e puzzolente di muffa. I monumenti emergono a fatica, ma sontuosi, dalle radici degli alberi.
Giunti al Bayon un non so che di misterioso ci rapisce. Sono i profili dei giganteschi volti impietriti delle facce che lo costituiscono, le quali s’irradiano tutt’intorno moltiplicandosi infinite e infinite volte quasi a voler simboleggiare l’eternità. La luce del sole sta per cedere la scena alle ombre della sera e l’enormi facce ultraterrene sembrano bisbigliare tra loro in un linguaggio antico e in uno spazio che pare al di là del tempo. 
Angkor… La magia è compiuta!

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