Da Keren a Massawa: la strada degli italiani
All’aeroporto di Sana’a, prima di imbarcarci sul volo per Asmara, siamo costretti a caricarci da soli gli zaini sui nastri scorrevoli che trasportano i bagagli all’interno della fusoliera dell’aereo. Ci sarebbe da discutere sul metodo, forse un po’ antiquato, ma sicuramente efficace, per non smarrire le valigie. Pur non essendo ancora arrivati pensiamo: rieccoci in Africa.
In Eritrea, la prima cosa che salta agli occhi è la guerra. La strada che collega l’aeroporto con Asmara è costellata di hangar delle Nazioni Unite, di stanza nel paese come forza di pace. Lungo i viali di Liberation Avenue le jeep bianche con la sigla U.N. (United Nations) passano di continuo. I segni della guerra sono ancora più visibili fuori della capitale. Sulla strada Keren - Massawa si vedono carri armati e cannoni abbandonati nei campi. La campagna e le montagne nascondono tutt’oggi mine e munizioni inesplose, nonostante gli impegni assunti dal governo per lo sminamento del territorio.
La strada degli italiani, dunque, perché agli Italiani si deve – a partire dal 1936 - la costruzione della principale arteria stradale del paese, un capolavoro d’ingegneria civile. Non è l’unico, basti pensare alla ferrovia che ancor oggi corre, in più punti, parallela alla strada, e alla teleferica costruita per il trasporto delle merci dal porto di Massawa ad Asmara, la più grande mai creata al mondo, purtroppo, smantellata dagli Inglesi.
La strada degli Italiani sale dai 1.220 metri di Keren ai 2.356 di Asmara per poi scendere, in appena 115 km, fino alla città portuale di Massawa. Lo slogan lanciato dell’ente del turismo Eritreo "tre stagioni in due ore" è quanto mai azzeccato. Il viaggio dall’altopiano centrale al mar Rosso è in grado di suscitare incantevoli emozioni per chi, come noi, è in cerca di paesaggi umani e naturali al di fuori delle rotte più battute del turismo.
Partiamo da Keren. La città dimessa e misera com’è, col suo sparso abitato aggrappato ai fianchi della montagna, si offre a quanti sono in grado di apprezzare uno spicchio d’Africa ancora autentico. Non c’è niente da vedere, neppure il mercato merita una visita. Non vediamo le donne di etnia Bilene, vero motivo per cui ci siamo spinti fin quaggiù, eppure quella sua atmosfera riservata e nostalgica la rende affascinante. Prima di partire, rendiamo omaggio al cimitero di guerra in cui sono sepolti soldati italiani e ascari (gli indigeni eritrei che combattevano affianco alle nostre truppe). Girando per il camposanto, i nostri animi si riempiono di orgoglio e fierezza, ci sentiamo più che mai Italiani.
Per andare ad Asmara noleggiamo un taxi. Il viaggio si rivelerà assai più lungo del previsto a causa delle tante ed impreviste soste. La prima appena fuori l’abitato del paese, quando il nostro autista è costretto a frenare bruscamente contro una fune alzata improvvisamente dai militari di guardia ad un checkpoint. Nessuno si fa’ male, ma il fatto alimenta un’accesa discussione tra il tassista e le guardie. Pagato senza alcuna motivazione un pedaggio, ripartiamo, ma ben presto siamo di nuovo fermi per una foratura che, fortuna vuole, avvenga nei pressi di un villaggio. Subito frotte di bambini scalzi e mal vestiti corrono intorno alla macchina per farci festa. E’ commovente osservarne l’espressione meravigliata, nel vedere le immagini di loro stessi riprodotte sul monitor della videocamera di Mavi. Le capanne del villaggio (chiamate hidmo) hanno il tetto di terra sorretto da pali di legno.
D’ora in avanti, nonostante nessun inconveniente, continueremo a procedere sempre molto lentamente ora fermi, sul ciglio della strada, a fotografare la carcassa di un carro armato, ora per ammirare un bel paesaggio e per visitare un caratteristico mercato. Di tanto, in tanto, greggi di muli, mucche e pecore, indifferenti di trovarsi proprio in mezzo alla strada, ci rallentano e arriviamo così ad Asmara quando è ormai scuro.
Se l’appellativo di "piccola Roma" è senza dubbio esagerato, di certo, la capitale dell’Eritrea ricorda molto una città italiana degli anni 30 perché tutti gli edifici e le opere sono rimaste tali e quali come quando gli Italiani se ne sono andati. Visitare Asmara è un viaggio a ritroso nel tempo, in un passato che un po’ è anche nostro perché appartiene ai ricordi dei nostri genitori, perché l’abbiamo studiato sui libri di storia e ripetutamente visto nei documentari alla televisione.
Visitiamo la cattedrale latina di stile romanico-lombardo (opera del Mazzetti), la cattedrale copta (Enda Mariam), la sinagoga e la Grande Moschea (Kulafah Al Rashidin). Le campane del campanile, si confondono con la voce dei muezzin emanata dagli altoparlanti dei minareti e con le preghiere dei monaci ortodossi a testimonianza dell’armonia religiosa che regna. Ci chiediamo come mai in altre aree del mondo la coesistenza tra differenti religioni è impossibile…
Asmara non si apprezza però per le sue opere architettoniche, neanche per il pur caratteristico mercato, in particolare nella zona del Medeber, ma passeggiando su e giù per Liberation Avenue e facendo conoscenza con la gente del posto, per lo più anziani in quanto parlano perfettamente l’italiano. Tra questi, un negoziante di scarpe che si esprime in corretto dialetto napoletano - senza voler offendere nessuno, la scena è divertentissima - ci accoglie in maniera ossequiosa poiché ci considera compatrioti e non stranieri. Rimpiange l’epoca del colonialismo in cui l’Italia portò al paese molte cose positive come sviluppo, progresso, benessere. A quei tempi, la nazione era uno degli stati leader Africani. Poi, Mussolini, portò anche l’Apartheid. Tutt’oggi segue la politica del nostro paese si dice contento del ritorno dei Savoia in Italia e critica i nostri governi, tutti, per aver abbandonato i propri coloni a dispetto di nazioni come Inghilterra e Francia che, invece, tutelano ancor oggi le proprie colonie.
All’ufficio telefonico una vecchietta riconosce la nostra nazionalità e s’avvicina desiderosa di scambiare quattro parole in italiano. In dieci minuti ci racconta tutto di lei, cresciuta fin dall’età di due anni presso una missione di suore italiane. Ecco spiegato perché parla tanto bene la nostra lingua.
Un ingegnere, vedendoci passeggiare sul viale con gli zaini in spalla, accosta la sua auto e c’invita a depositare i bagagli nel suo ufficio. Accettiamo e una volta in macchina lo ringraziamo per la gentilezza. Lo faccio perché siete Italiani risponde.
In definitiva siamo molto sorpresi che in questo piccolo angolo del Corno d’Africa gli Italiani siano ancora tanto amati. Sarà il rimpianto di persone per la gioventù passata o davvero l’Italia – nonostante abbia portato l’apartheid - ha fatto molto per questa gente?
Infine, passeggiando sempre per Liberation Avenue, vediamo il tipico saluto degli ex-combattenti che consiste nello stringersi la mano dandosi contemporaneamente tre spallate con la spalla destra. Ci colpiscono, poi, le acconciature delle donne, le quali amano acconciarsi i capelli in infinite e minuscole trecce.
La strada da Asmara a Massawa è - a tutti gli effetti - una strada alpina, con tanto di pendenze impossibili e innumerevoli tornanti. Ci s’ingannerebbe facilmente se non fosse per le carovane di cammelli e dromedari che s’incontrano lungo il percorso e le innumerevoli piante grasse, cactus e fichi d’india, che ricoprono i pendii delle montagne.
A Dangolio, una lapide ricorda i soldati italiani, "immolatisi per la patria", nella battaglia del 28 gennaio 1886. Nel piccolo ufficio adiacente un grosso album che raccoglie le firme conserva l’emozioni di quanti ci hanno preceduto e adesso anche le nostre. Subito dopo attraversiamo il celebre ponte, noto a noi italiani e ancor di più a noi piemontesi, in quanto reca la scritta < Ca custa lon ca custa > l’unica frase in dialetto piemontese presente in tutta l’Africa.
Sarà per il brusco passaggio dal clima secco e gradevole della montagna a quello caldo e umido del mare, sta’ di fatto che troviamo Massawa davvero insopportabile! E dire che, dal punto di vista meteorologico, siamo nel periodo migliore dell’anno. Massawa ha più l’aspetto di un paese che di un grande agglomerato. A Massawa Island, il cuore della città, ci aggiriamo tra vicoli ed angoli appartati per venire a contatto con la gente del luogo, davvero ospitale e ben disposta a dialogare. Conosciamo così un gruppo di donne intente a cuocere una specie di "farinata" in forni di fortuna, bidoni per il petrolio al cui interno viene fatta bruciare della legna e chiusi, nella parte superiore, da un coperchio dove si fa colare l’impasto. C’invitano a bere una specie di birra fatta in casa la "sura". Per non essere scortesi accettiamo, ma ingurgitiamo la bevanda con estrema fatica, sperando allo stesso tempo nell’efficacia dei vaccini. Su una piccola piazzetta delle ragazze ci offrono altra birra, l’Asmara beer, senza dubbio un altro bere. Tutto si svolge fuori, all’aria aperta: si parla, si gioca, si dorme, si magia, si ascolta la musica, ecc., ecc.
Il giorno seguente compiamo un escursione negli immediati dintorni di Massawa, in direzione Gurgusum, con l’intenzione di far visita ad un insediamento di etnia rashaida. Dopo la delusione per non essere riusciti a vedere nessuna tribù di etnia bilene speriamo di incontrare almeno quest’ultimi. Una piccola speranza perché - tra i nove gruppi etnici - i Rashaida sono i meno numerosi e oltretutto nomadi. La fortuna è con noi. Troviamo un villaggio senza quasi cercarlo, ai bordi della strada. Lasciamo l’asfalto ed imbocchiamo una pista brutta, ma breve. Un nugolo di bambini ci corre incontro e ci accompagna festante fino all’accampamento. Trattandosi di una popolazione mussulmana le donne adulte portano il velo che - a differenza di altri posti - si evidenzia per essere finemente ricamato. Ritornati in città cerchiamo Mohammed Gaas per organizzare la mini-crociera alle isole Dahlak. Una volta terminata la contrattazione e definito il tour, noi davanti a una fredda bottiglia di Coca-Cola e lui, a dispetto del caldo, a un bicchiere di tè bollente, intraprendiamo una piacevole conversazione. Mohammed Gaas, 78 anni, è un manuale di storia. Ricorda quando il treno transitava di continuo per andare a caricare le merci delle navi, di quanto sotto l’Impero l’Eritrea fosse prospera. Parlando degli italiani distingue i monarchici dai fascisti: buoni i primi e cattivi i secondi! Ricorda ancora molto bene l’apartheid quando, per esempio, non poteva entrare al "bar Savoia" o sedere sugli autobus.
Durante la notte emerge il lato più negativo di Massawa. E’ sufficiente fermarsi lungo la strada rialzata che collega Massawa Island con Taulud Island per essere abbordati. Questo è quanto capitato a me e Cece. Due giovani ragazze, dall’età apparente di 16 anni, s’avvicinano chiedendoci dei soldi ed esortandoci a seguirle nella propria casa. A Massawa la prostituzione è fiorente e reca con sé la piaga dell’AIDS. Malnutrizione e l’AIDS rappresentano un binomio micidiale e un grave problema.
Non sto a raccontarvi il ritorno ad Asmara che avviene sulla medesima strada dell’andata, più che mai costellata di mezzi pesanti guasti, fermi in mezzo alla strada, messi fuori uso sì dalle pendenze, ma pure dall’usura degli anni.
Arriviamo all’aeroporto con tre ore d’anticipo rispetto alla partenza del volo, ma l’aeroporto internazionale della capitale dell’Eritrea è chiuso perché non c’è nessun volo in partenza e in arrivo cosicché dobbiamo aspettare l’apertura dei cancelli in quella che gli addetti allo scalo chiamano sala d’attesa, ossia un tendone con all’interno dei tavoli, delle sedie e un minuscolo bar. Ci sarebbe da discutere sulla sala d’attesa, ma d’altronde siamo in Africa.
In pochi altri posti al mondo, forse soltanto in Qatar, abbiamo incontrato meno turisti. Adesso capiamo lo stupore del carabiniere italiano in forza alle Nazioni Unite che ci ha incontrati ad Asmara e la perplessità di Laura, una ragazza conosciuta sull’aereo, la quale mai più pensava di trovare dei turisti italiani a bordo.
Qui il turismo è, ancora, quasi sconosciuto. L’Eritrea, per tanto, è un paese perfetto per chi viaggia per il gusto di viaggiare.