Lungo la via dell'incenso: da Sana'a a Tarim

29.10.2003 21:38

Subito fuori Sana’a un nuovo posto di blocco arresta la nostra marcia per Marib. Mohamed, come il solito, tira fuori dalla propria cartellina l’ennesimo permesso rilasciato dalla polizia, ma ci accorgiamo subito che stavolta qualcosa non quadra. I permessi che fino ad ora ci avevano spalancato ogni porta non sembrano essere sufficienti. A nulla valgono le insistenze di Mohamed che, documento alla mano, discute animosamente per più di un’ora con l’ufficiale addetto al comando del check points. Siamo costretti ad aspettare sull’antistante e desolato piazzale fino alle nove, l’orario stabilito dalle autorità per scortare tutti insieme i turisti, ogni giorno, da Sana’a a Marib. Sono solo le sei e Mohamed si sente in colpa per averci fatto alzare molto presto. Abdulah n’approfitta per concedersi altre ore di sonno. Dei bambini, che provengono da non si sa dove, visto che tutt’intorno non c’è niente, alleviano la nostra attesa semplicemente con la loro presenza. Offriamo loro dei biscotti: i maschi con meno di dieci anni e le femmine sotto i nove sono infatti esentati dal rispettare il ramadan. Alle nove in punto, ripartiamo, insieme a due francesi, diretti come noi a Marib. Di tutti quei turisti prospettati dall’ufficiale nemmeno l’ombra... La scorta è composta da due piccole camionette: una ci precede e l’altra ci segue. Entrambe sono piene di militari, ma non basta perché altri due soldati salgono sul nostro fuoristrada e su quello dei francesi. Il numero di uomini impiegato per scortare solo sei turisti è significativo. Siamo, infatti, in procinto di attraversare una zona ad accesso limitato. Qui il rischio rapimenti è alto. 

Il paesaggio man mano che ci allontaniamo da Sana’a diventa sempre più arido e brullo. La scarsa vegetazione contribuisce a rendere la zona desolata. La strada in ottime condizioni s’innalza fino al passo di Naqil al Farda (2.000 mt.) da dove precipita verso il basso, tanto quanto saliva vertiginosamente prima. Dalla sommità del colle vediamo stendersi, a perdita d’occhio, una vasta pianura di colore giallo-marrone: è il deserto… Là fioriva, un tempo, l’Arabia Felix della regina di Saba. La visita a Baraqish è vietata a causa dell’acutizzarsi degli scontri fra tribù locali proseguiamo, così, direttamente per Marib. Nuvole di polvere, sollevate dal vento, accolgono il nostro arrivo in questo avamposto del deserto. Per le strade non vediamo nessuna donna, ma soltanto uomini, per di più armati di kalashnikov. Nello Yemen esibire un’arma è, da parte di un uomo, l’affermazione della propria virilità. S’impara presto a dare alle armi la giusta dimensione, ma nel vederle addosso a uomini e ragazzini indistintamente avverto nell’aria un non so che d’inquietante. Nell’hotel di cui siamo ospiti i due uomini alla reception ci registrano con il fucile in spalla. Accanto alle nostre camere vediamo entrare due individui, anche loro, con il fucile in pugno. Se non fosse per la scorta, che ci segue come un’ombra persino all’interno dell’albergo, ci sarebbe davvero di che preoccuparsi. 
Nel tardo pomeriggio usciamo a visitare quel poco che ha da offrire la città. Ci dirigiamo una decina di chilometri fuori Marib. Imbocchiamo una pista che conduce alla vecchia diga ridotta ormai ad uno scempio nel senso vero della parola, poi proseguendo per la stessa, un po’ più a monte, incontriamo la nuova diga. Nella breve stagione delle piogge, raccoglie l’acqua sufficiente a coprire il bisogno per tutto l’anno. Anche se i raccolti restano, nonostante tutto, molto scarsi, vedere questa striscia di vegetazione verde colpisce e fa’ immaginare a come doveva essere l’Arabia Felix. Ritornati a Marib ci aggiriamo tra le rovine del tempio del Sole e quelle del tempio della Luna. Del primo non restano che otto monumentali pilastri che emergono a fatica dalla sabbia. Nel secondo ci fermiamo sotto cinque colonne che si ergono su di una piattaforma di pietre. Mohamed ci dice che rappresentano i cinque pilastri della fede islamica mentre il sesto, spezzato, rappresenta l’indiscusso sesto principio dell’Arkan, ossia quello della Jihad: la guerra islamica. Rimaniamo delusi, ma tutto questo è quanto resta del regno della regina di Bilqis, il nome yemenita della regina di Saba, la cui fama oggi come allora si sparge ancora per tutto il mondo. Altri tesori aspettano di venire scoperti… ma chissà quando.
Il profilarsi della sagoma di Old Marib fa’ pensare. Da lontano, la vista è emozionante: assomiglia ad un castello di sabbia costruito da un bambino. Superate le mura, scopriamo come le case, così come un castello di sabbia, stanno inesorabilmente crollando. Ancor di più fa’ pensare la gente. Non per il colore della pelle, né per la lingua, né per la religione, ma per la povertà, la sporcizia, le malattie… Perché loro e non noi? E’ triste per noi turisti venire fin qui ad immortalare tale miseria ed arretratezza, scandalizzarsi per la mancanza di ogni bene di prima necessità, stupirsi per l’ingenua gioia di vivere e per la gentilezza.
Prima della cena, Mohamed ci conduce a casa del beduino, con cui aveva preso appuntamento, che ci sarà indispensabile per attraversare il deserto. Dopo una breve trattativa per accordarci sul prezzo, definiamo l’orario di partenza e ci diamo appuntamento a domani. Alla sera mangiamo tutti insieme, scorta armata compresa, a cui offriamo la cena visto che da Sana’a si preoccupano di proteggerci. Al mercato notturno di Marib facciamo le spese per l’indomani, un po’ di frutta e tante bottiglie d’acqua. Essendo gli unici turisti siamo seguiti da un nugolo di bambini armati.

Lasciata Marib, proseguiamo fino a Safir per una bella strada asfaltata che da qui in avanti va sempre più stringendosi invasa com’è dalla sabbia delle piccole dune che orlano la carreggiata. Nonostante l’asfalto assaporiamo un anticipo di deserto. Dopo una cinquantina di chilometri in mezzo a questo territorio bruciato dal sole, che nulla lascia presagire, vediamo materializzarsi all’orizzonte, senza alcun preavviso, numerosi pozzi di petrolio.
A questo proposito è utile ricordare il difficile rapporto tra Yemen e Arabia Saudita, storicamente conflittuale per motivi di confini che nel sud-est non sono stati ancora oggi perfettamente definiti a causa, appunto, dei giacimenti di petrolio che prolificano nell’area e che le due parti rivendicano. 
All’altezza dei giacimenti abbandoniamo la strada asfaltata che conduce a Tarim e prosegue fino in Oman e puntiamo dritti nel deserto. Sulla pista di sabbia, anzi sulla sabbia perché tracce non ve ne sono, sgonfiamo opportunamente i pneumatici, per rendere la guida più facile e correre meno rischi di restare insabbiati. Viaggiamo ad un’andatura di circa 80km/h. A bordo di uno dei due fuoristrada, in un inglese stentato, discorro con il beduino che ci guida e vengo a sapere che fa’ parte di una tribù, dal nome impronunciabile, che vive in continuo movimento nelle deserte lande del Sab’Atayn. Anche se lui abita ormai da alcuni anni a Marib, non paga imposte e non riconosce altra autorità all’infuori del capo della sua tribù. Vecchio e sgangherato, il pick up è il suo bene più prezioso non tanto perché con questo lavora accompagnando i viaggiatori come noi, ma perché gli permette di tornare spesso nel deserto.
Il Ramlat as-Sab’Atayn, fa’ parte del deserto ar-Ruba’ al-Khali, letteralmente “il quartiere vuoto”, nome azzeccato per una pianura sabbiosa senza fine apparente. Il Sab’Atayn è completamente privo delle dune scultoree, sensuali e seducenti che contraddistinguono altri deserti. Quella che in lontananza sembrava una collina, man mano che ci avviciniamo si rivela essere una delle rarissime dune. Appena arrivati, ci divertiamo a salirla e scenderla con i fuoristrada, poi ne approfittiamo per fare una breve sosta. Mohamed, Abdulah e il beduino si coricano sotto il ventre del pick up per ripararsi dal sole. Cece, Ila e Mavi mangiano sfruttando anche loro la poca ombra procurata dal fuoristrada. Dall’alto della duna, io penso allo strano potere di seduzione dei deserti: spazi solitari e irraggiungibili, di quiete e di solitudine. Quaranta minuti dopo siamo di nuovo in movimento. Ci rincorriamo e superiamo vicendevolmente in una sorta di gara rallystica nel deserto. Sorpasso dopo sorpasso, finiamo per perderci completamente di vista senza ricordarci chi è avanti, chi è indietro… Nel Sab’Atayn, dopo aver viaggiato per tanti deserti, vedo finalmente materializzarsi l’immagine a cui ho sempre associato questo luogo: i cammelli. Vivono in branchi, allo stato brado, che il calore fa apparire e sparire come tremanti miraggi. Dopo i cammelli, incrociamo un campo di tende beduine.
La guida beduina ci dice che l’acqua ha sempre costituito il problema principale di questi posti insieme al caldo e all’isolamento. Incrociamo, poi, piste segnate dai pneumatici di altre auto che corrono verso il nulla. Pur sprovvisto di gps e bussola, il nostro beduino-autista le taglia senza alcuna esitazione. Ora, solo ora, in mezzo a questa distesa piatta e desolata di sabbia capisco il significativo nome affibbiato a questo deserto: “quartiere vuoto”
Quando l’orizzonte non è più piatto ed infinito, ma limitato dalle alte falesie del Wadi Hadhramaut significa che l’attraversata del deserto è terminata. Dopo più di 200 km ritroviamo l’asfalto. Lasciamo il beduino che ci ha guidati e puntiamo su Al Ghorfah, base d’appoggio da cui, nei prossimi due giorni, visiteremo le perle dell’Hadhramaut: Shibam, Seyun e Tarim. Il paesaggio cambia notevolmente. Ai pochi segni di vita del deserto, qualche acacia qua, dei dromedari là e isolate tende beduine fanno ora da contraltare la fertilissima valle dell’Hadhramaut, una comparsa del tutto inattesa dopo le desolazioni del Sab’Atayn. Arriviamo esausti per via dei chilometri coperti e del caldo, ma non tanto quanto Mohamed ed Abdulah, sfiniti sia dal viaggio che dal ramadan. 

L’indomani, raggiungiamo Tarim percorrendo ancora l’antica Via dell’Incenso. Per tutto il percorso, i nostri sguardi sonno catturati da strane presenze che s’aggirano per i campi. Si tratta delle contadine dell’Hadhramaut, donne vestite completamente di nero, da capo ai piedi, con curiosi cappelli di paglia in testa, alti ed appuntiti. Sembrano le streghe delle fiabe che ci raccontavano le nostre nonne. Viene spontaneo cercare d’immortalarle, ma guai a farsi vedere o saremo oggetto di feroci lanci di pietre. Tarim è famosa per gli splendidi edifici in stile barocco giavanese, costruiti dalla potente famiglia degli al-Kaf, la cui particolarità è quella di essere costruiti interamente con mattoni di fango. Oltre Tarim, ci dice Abdulah, sulle pendici delle montagne, cresce ancora l’albero da cui si ricavano l’incenso e la mirra.
Ritorniamo indietro e ci fermiamo a Seyun, al palazzo del sultano che intonacato di bianco com’è, sotto il sole del mezzogiorno, diventa accecante ai riflessi del sole.
Riserviamo la visita di Shibam, la Manhattan del deserto, all’ora del tramonto. E’ una città straordinaria e unica per via dei suoi grattacieli d’argilla, giustamente dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Prima di salire al caratteristico belvedere, entriamo in città e ci aggiriamo a piedi tra gli stretti vicoli nei quali il sole non riesce a far capolino neppure quando splende alto in cielo. Passeggiando, abbiamo modo di assistere ad una lezione tenuta nell’aia di un piccolo cortile, sede della locale scuola, e di imbatterci in ogni sorta d’animale: gatti, cani, capre e galline circolano indisturbati. Durante il nostro girovagare, ci sente osservati dagli occhi indiscreti di curiosi bambini che ci spiano attraverso le grate di legno delle abitazioni.
Usciti dalle mura della città, attraversiamo la strada e un campo di calcio quindi saliamo per un sentiero ben tracciato che, in dieci minuti, porta al punto panoramico. Sembra di essere sopra le nuvole ad osservare qualcosa di irreale. Dall’alto i 500 edifici, stretti l’uno accanto all’altro, alti fino a 40 metri e raggruppati in un’area di appena mezzo chilometro quadrato, sono uno spettacolo indimenticabile. Restiamo in silenzio, come stregati da un incantesimo, fin quando non diventa buio.