"Reportage di Viaggio" è la raccolta dei viaggi organizzati da Socchi Adriano, titolare dell'agenzia CULTURE LONTANE


Trans Kalahari Highway: da Lobatse a Maun nelle terre dei boscimani

17.11.2006 23:34

La frontiera tra Skilpadshek (Sud Africa) e Lobatse (Botswana) si attraversa, una volta tanto, senza troppi fronzoli burocratici. Giusto il tempo di applicare i timbri d’uscita e d’entrata sul passaporto e controllare il permesso dell’auto noleggiata in Sud Africa. All’ufficio immigrazione di Pioneer Gate un distributore gratuito di preservativi attira l’attenzione del gruppo e innesca maliziose, quanto inopportune, battute da parte degli uomini. E’ il primo di tanti. Saranno una costante per tutto il viaggio, in banca, alla stazione dei bus, dal gommista, sul palo di un marciapiede prospiciente alcuni esercizi commerciali. Insomma un po’ ovunque, del resto, in Botswana, l’AIDS è una vera e propria piaga sociale. In tutto il paese c’è una consistente campagna propagandistica di prevenzione. Lungo le strade enormi cartelloni pubblicitari invitano a sottoporsi al test e all’uso del profilattico.


Sono 806 chilometri di strada dritta e vuota, da Lobatse a Ghanzi, una striscia scura d’asfalto interminabile che penetra nel vuoto assoluto del deserto. Circondata dall’immenso silenzio della savana, inaspettatamente verdastra, che ricopre la sabbia; avvolta dal cielo sconfinato, sorvolato da spettacolari ma innocue nubi. Ecco la Trans-Kalahari Highway. Niente traffico, pochissime indicazioni. L’affrontiamo con una tanica di benzina di scorta e con la speranza di non avere guai meccanici. Dopo un’ora già ti ingoia e annoia, il sole non da tregua. Il silenzio tutto intorno è rotto solo dal rumore del motore e dell’aria condizionata; 207 km di nulla fino a Sekoma, che a dispetto di quanto segnato sulla carta geografica non è una città, ma un miserevole villaggio. Altri 160 km di nulla è s’arriva a Kang meno che un villaggio, poi 439 di nulla, per arrivare a Ghanzi, primo e vero avamposto dopo Lobatse. Nella calura del mezzogiorno ogni creatura vivente è immobile, all’ombra di un albero, per ripararsi dal sole. Si tratta essenzialmente di asini, mucche e pecore. Poi, a partire da metà pomeriggio, progressivamente, dai bordi della carreggiata, si spostano in mezzo alla strada tanto da impadronirsene. Tutte le volte che li si vede profilarsi davanti la velocità si riduce quasi a fermarsi poiché non si muovono finché l’auto non gli è pressoché addosso. Il parabrezza è costantemente sporco di sangue degli insetti spiccicati sul vetro. Alla fine della giornata dopo tre cambi guida, due sole fermate, i sederi piatti per la lunga traversata s’arriva a Ghanzi. Stanchi per il viaggio il paese sembra niente di più di un grosso villaggio con un solo hotel e due benzinai, quanto basta per rifocillare noi e il nostro mezzo. Domani quando ci saremo opportunamente riposati avremo modo di vedere Ghanzi per quello che è veramente ossia la “Capitale dei boscimani”!

“Chi sono i boscimani”?
I boscimani sono un popolo di cacciatori-raccoglitori famosi per la loro abilità a procacciarsi il cibo ed essere in grado così di fronteggiare l’aridità del deserto del Kalahari. San, che significa “altri”, è il modo dispregiativo con cui venivano chiamati in quanto vivono senza mandrie da accudire e sono incapaci di coltivare. Gli europei, boeri e anglosassoni, conservarono il termine san, che nell’idioma europeo diventa bushman, uomini che vivono con quello che trovano nel bush, appunto i boscimani. Passeggiando su una delle due uniche strade asfaltate, che attraversano il villaggio di Ghanzi, s’incontrano facilmente.

Un’esperienza indimenticabile oltre che educativa è il safari a piedi nel bush accompagnati dai san. La Game Farm che organizza questo genere di escursioni è quella di Dqae Qare, segnalata da un bivio all’incirca a metà strada tra Ghanzi e D’kar si raggiunge dopo 7 km di pista accidentata e sabbiosa.
Ci accompagnano nel bush tre donne boscimani, nonna, figlia e nipote, sono vestite all’occidentale con indosso avanzi cenciosi di qualche turista. Man mano che si procede, davanti a determinate piante, si fermano per mostrarci quali benefici ne traggono. Restiamo subito sorpresi, quando la più anziana si siede a terra e con un bastone scava una buca nella sabbia dalla quale tira fuori una specie di tubero pieno d’acqua. Ci indicano poi un’altra pianta con fiori bianchi che ridotti in polvere sono efficaci contro il bruciore degli occhi. Tutto il bush sembra pieno zeppo di radici, erbe e bacche che procurano tutto quello di cui hanno bisogno acqua, cibo e medicine. Per esempio lo sterco di proravia fa bene alla prostata, il frutto del sausage tree a contatto con la pelle è efficace contro i melanomi. A un certo punto dalla sabbia raccolgono addirittura una patata. Il Kalahari visto da dentro, a differenza di quanto si riesca a percepire dalla strada in auto, non è solo una distesa rovente e arida, riarsa dal sole, polverosa e sabbiosa, d’erba gialla e piccoli cespugli, ma sembra una terra fatta apposta per i san. Solo un popolo di cacciatori e raccoglitori è in grado di viverci. L’allevamento e l’agricoltura sono impossibili.
E’ singolare ascoltarli, quando parlano la loro lingua è un susseguirsi armonioso di schiocchi e click che scaturisce un suono a noi strano e singolare.
Alcuni san, quelli più intraprendenti, sono sempre più coinvolti in progetti di conservazione delle loro origini come attività turistiche, quali “safari di caccia o di raccolta” l’intento è quello di auto sostenersi nelle loro zone di origine. Non è facile poiché i turisti attratti da interessi etnologici sono annualmente davvero pochi.
Oggi gli operatori turistici sfruttano la bontà dei san, ancor più dell’ingenuità dei turisti, organizzano tour di comune accordo con il comitato di sviluppo dei San di Maun. E’ tutto perfettamente programmato. All’occorrenza i san si trasferiscono dalla città nel bush svestendosi degli abiti occidentali e indossando quelli dei loro avi facendosi trovare in un fantomatico accampamento. Ospitano i turisti nelle proprie capanne danzano intorno al fuoco e partecipano a safari di caccia. Il tutto è inscenato a beneficio del turista. Che non è un peccato… Peccato purtroppo che gli introiti di tale forma di turismo sono in maggior parte incassati dall’operatore e non dai boscimani.

Non illudetevi, il modello di vita dei boscimani è scomparso, ormai hanno perso la capacità di cavarsela nell’ostile territorio del deserto. Siamo venuti fin quaggiù per cercare i boscimani, documentare con riprese e fotografie, una delle ultime autentiche ed esotiche etnie africane. I boscimani esistono ancora, ma non vivono più secondo il loro antico stile di vita ormai perduto. Non aspettatevi di incontrarli vestiti con le pelli di animale, impugnare l’arco, o abitare in capanne costruite con i rami flessibili su cui applicano erba e stuoie. Oggi se vedete dei san così altro non sono che fenomeni da baraccone esibiti alla curiosità del turista. «I boscimani sono scomparsi e le loro capanne non stanno più qui.» È il grido di dolore lanciato dal capo dei boscimani.
Contemporaneamente al miracolo economico del Botswana, grazie all’estrazione dei diamanti da parte della De Beers, di cui oggi il paese è il primo produttore al mondo, la controversia con i san si risolveva con la sistemazione di costoro in zone di insediamento create dal governo, aree marginali nelle quali avrebbero conosciuto sviluppo e civilizzazione. Nient'altro che scuse in realtà l'obiettivo era appropriarsi delle loro terre e delle risorse contenute, a seguito della scoperta nel Kalahari di grandi giacimenti di pietre preziose. Comprensibile la volontà dei san a non lasciarsi rinchiudere in queste riserve. In questa sorta di campi di concentramento, soltanto più estesi,
La protesta dei "boscimani" è ben sintetizzata nelle parole di Rosy Sesana «Mi chiedo che sviluppo sia mai quello che fa vivere la tua gente meno di quanto vivesse prima…Stiamo prendendo l'AIDS, i nostri bambini non vogliono andare a scuola perché là vengono picchiati, alcuni si stanno dando alla prostituzione. Non gli è permesso cacciare allora litigano perché si annoiano e bevono. Alcuni hanno cominciato a suicidarsi. Non si è mai vista una cosa del genere prima! Fa male raccontare queste cose. E' questo lo sviluppo?»
Dopo anni di lotte giudiziarie, grazie anche all’intervento di associazioni umanitarie a difesa dei popoli tribali, proprio nel novembre del 2006, quando l’etnia san sembrava irrimediabilmente indirizzata sulla via del tramonto, la Corte Suprema di Lobatse nella contesa tra le ragioni sostenute dal governo e quelle avvalorate dal popolo boscimane, a sorpresa, dava ragione a quest’ultimo. I san possono vivere in libertà come e dove vogliono. Sono liberi di educare i loro figli secondo la loro religione e il loro sistema di vita, liberi di andare a cacciare e vivere con i mezzi offerti dalla terra. La grossa novità scaturita dal processo è che d’ora in avanti il loro punto di vista sarà ascoltato, troppo tardi forse… I giovani san, infatti, non più abituati al tipo di vita dei loro genitori saranno in grado, per quanto possibile, di conservare le antiche tradizioni?

Proseguiamo verso nord, diretti a Maun, non senza imboccare la deviazione per D’Kar, piccolo agglomerato, dove si possono osservare, sparsi nei dintorni, gli ultimi villaggi san, per lo meno quanto è rimasto o meglio ancora quello che sono diventati. E’ sufficiente fermarsi sul ciglio della strada, quando se ne intravede uno tra le sterpaglie del Kalahari, e subito frotte di bambini di corsa e scalzi si precipitano incontro incuriositi dalla nostra presenza. Non chiedono niente, che so, penne o caramelle, si divertono assumendo pose e atteggiamenti ridicoli con l’intento di far ridere e comunicare. Al museo san di D’Kar, impedibile se si vuole completare il percorso di conoscenza di questo popolo, l’ampio spiazzo in terra battuta è arroventato dal sole impietoso del mezzogiorno, così ci precipitiamo all’interno. In due grandi saloni ci si fa’ un’idea della maniera di vivere dei san con tanto di oggetti esposti, armi, tende, vestiti e fotografie. Nel negozio si possono acquistare oggetti dell’artigianato e anche se l’ingresso e i prodotti sono esageratamente cari e come se lasciaste un’offerta a questo popolo a rischio di estinzione e martoriato dal progresso.

Ultimi 250 km su bella strada asfaltata contornata da un paesaggio simile a quello attraversato nei giorni precedenti e s’arriva a Maun. Dopo giorni di desolazione questo avamposto del delta dell’Okawango ci sembra una metropoli seppur con i suoi appena 35.000 abitanti. Alla periferia della città incontriamo le prime donne herero altre le vedremo i giorni successivi accampate con delle tende proprio in centro città. Sono vestite con il caratteristico abito costituito da una grossa crinolina indossata sopra una serie di sottogonne, retaggio dei missionari tedeschi, dell’epoca vittoriana. Costoro, infatti, non gradivano per nulla quella che essi consideravano una mancanza di pudore da parte delle donne locali abituate a tenere il petto scoperto. In testa portano il tipico cappello, a forma di corno, che le rende inconfondibili.
A Maun termina la prima parte del viaggio con l’attraversata delle terre dei boscimani e inizia quella dei grandi parchi del Botswana.

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